John Keats

Marco Montagnin
Letteratura

Vive con la Bellezza, la Bellezza
che morirà

 

Ode a Psiche

 

Ascolta, Dea, le sillabe stonate

con grazia estorte a un ricordo caro:

e concedimi di dire i tuoi segreti

nella soffice conca del tuo orecchio.

Ma certo oggi ho sognato, oppure ho visto

l’ala di Psiche che ero tutto sveglio?

Spensierato giravo per un bosco

e poi dalla sorpresa trasalivo!

Ho scorto due creature, fianco a fianco,

nell’erba folta, sotto un mormorio

di foglie e fiori smossi, e lì scorreva

nascosto un ruscelletto:

in quel silenzio d’occhi profumati,

radici, gemme azzurre e argento e rosse,

respiravano tranquille sull’erba,

le braccia avvinte e le punte dell’ala;

la carezza del sonno già staccava

le loro labbra prima dell’addio,

e pronte a darsi baci più di quando

l’amore insorge con il primo sguardo;

riconoscevo l’alato ragazzo;

ma chi eri tu, felice colombella?

Proprio tu, la sua Psiche!

 

Ultima nata, quanto più adorata

d’ogni schiera scomparsa dall’Olimpo!

Più dell’astro di Febe tra zaffiri.

più di Vespero, lucciola amorosa

del cielo, la più bella e senza templi,

senza un altare ricolmo di fiori;

non hai cori di vergini che cantano

quando la notte è fonda;

né voci, liuti, flauti, dolce incenso

che sparge dal turibolo oscillante;

né celle, boschi, oracoli, il delirio

sulle livide labbra d’un profeta.

La più splendente, giunta troppo tardi

per voti antichi, tardi per la lira

ingenua, quando sacro era l’incanto

dei rami e sacri l’aria, l’acqua e il fuoco;

ancora in questi giorni lontanissimi

dai culti lieti, l’ala tua che s’agita

luminosa sui resti dell’Olimpo,

io vedo e canto, spinto dal mio sguardo.

Io ti farò da coro e canterò

quando la notte è fonda;

sarò voce, liuto, flauto, l’incenso

che sparge dal turibolo;

” cella, bosco, oracolo, il delirio

sulle livide labbra d’un profeta.

 

Ti farò da ministro, dentro un tempio

in terre della mente non battute;

lieve un’ansia vi dirama pensieri

che mormorano al vento come pini:

e più lontano, quelle chiome scure

di balzo in balzo vestono i crinali

e zefiri, ruscelli, uccelli e api

assopiranno le driadi sul muschio;

e nel mezzo di questa quiete vasta

le rose d’un santuario disporrò

tutt’intorno alle grate del mio genio,

boccioli, campanelle e stelle ignote

e quanto può la verde Fantasia,

che crea i fiori, e mai ricrea gli stessi:

e li sarà per te ogni delizia

che un pensiero segreto si conquista,

una torcia, una finestra aperta a notte

  • per il più caldo Amore!

ODE SULLA MALINCONIA

I

No, no, non scendere al Lete, e non torcere

l’aconito per prenderne il veleno:

non sfiorerà la tua pallida fronte

la rossa belladonna di Proserpina:

non infilare un rosario di bacche,

non saranno per te lo scarabeo

o la falena una lugubre Psiche,

né il gufo il tuo compagno di rovelli;

perché l’ombra nell’ombra induce il sonno

e sfuma l’ansia vigile dell’anima.

II

Ma appena la malinconia ti prende

come scroscio di nuvole dal cielo,

che nutre i fiori abbattuti e ricopre

di un sudario d’aprile il colle verde,

ti consoli una rosa mattutina,

l’arcobaleno sopra la risacca,

la ricchezza delle tonde peonie;

se la tua amante si mostra adirata,

mentre vaneggia serrale la mano,

degli occhi senza pari godi a fondo.

III

Vive con la Bellezza, la Bellezza

che morirà; e la Gioia, che ha la mano

sulle labbra e dice addio; il Piacere

tormenta ed è veleno se la bocca

lo succhia come un’ape: in questo tempio

di Delizia regna Malinconia,

la scorge dietro il velo chi soltanto

schiaccia un chicco di Gioia sul palato:

ne saggia l’anima il triste dominio,

come un trofeo sta appesa tra le nubi.

[1] John Keats, Keats opere, Collana Meridiani, Mondadori pp 681-685 e pp 699-701

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