In altre parole, è giustificato, in presenza di un vuoto normativo ed alla luce del principio di tassatività sancito dalla Costituzione ‒ che impone al giudice di applicare solo la legge intesa come norma in vigore ‒ che un singolo magistrato possa effettuare tale interpretazione estensiva andando quasi a sostituirsi al legislatore?
Il nostro ordinamento, come forse noto anche al lettore meno avvezzo alle tematiche giuridiche, prevede delle circostanze ‘attenuanti’ ed ‘aggravanti’, cioè degli elementi accessori del reato base, che comportano un aumento oppure una diminuzione della pena.
Proprio in tale contesto si inserisce l’art. 604-ter c.p., introdotto dal D.Lgs. 1° marzo 2018, n. 21, che disciplina la circostanza aggravante di un reato commesso «per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità».
Tale articolo è poi balzato agli onori delle cronache a causa del tentativo di estensione legislativa, con il c.d. D.d.l. Zan, anche ai casi inerenti alla discriminazione di genere. Non essendo stato approvato tale decreto, ad oggi restano esclusi tutti i gruppi sociali non esplicitamente previsti dalla norma, a cominciare dalla comunità Lgbtiq+.
In tal senso, quindi, basandosi su una mera interpretazione letterale della norma, questa aggravante non può essere applicata qualora il reato sia perpetrato per finalità discriminatorie basate sull’orientamento sessuale, in quanto quest’ultimo non rientra nell’elenco, tassativo, previsto dall’art. 604-ter c.p.-
Ciononostante, con una recente sentenza [1] (Trib. Milano, 20 ottobre 2022, dep. 16 dicembre 2022) il Tribunale di Milano ha applicato la circostanza aggravante di cui all’art. 604-ter c.p. a una condotta di lesioni motivata da omofobia.
La questione aveva ad oggetto le violenze perpetrate da una coppia di genitori, di religione islamica, nei confronti del figlio in seguito al suo coming out; le lesioni, aggravate ex art. 604-ter c.p., venivano integrate dal padre, mentre la madre è stata condannata per omesso impedimento delle stesse e per la successiva omissione di soccorso.
Nella ricostruzione effettuata dal giudice si evince come la persona offesa, un ragazzo di quindici anni, avesse deciso di rivelare il proprio orientamento sessuale ai genitori sperando di ricevere da loro comprensione e sostegno.
Il giovane ha condiviso con i genitori, via WhatsApp, un filmato con protagonista un ragazzo omosessuale di origine araba ed ha inserito un proprio commento per rivelare la sua stessa omosessualità. Tornato a casa, ha trovato sua madre che, per prima cosa, l’ha accusato di voler attirare l’attenzione su di lui, e poi l’ha rimproverato, dicendogli che ‒ come musulmano ‒ non avrebbe potuto comportarsi in quel modo perché il Corano vieta l’instaurazione di legami tra persone dello stesso sesso.
Al suo ritorno presso l’abitazione il padre si è subito recato nella camera del figlio esclamando «dov’è il nostro bel frocio?» e, vedendo che il figlio non rispondeva alla domanda, l’ha colpito con uno schiaffo. Il ragazzo, che si trovava seduto su una sedia, è caduto a terra e, prima di potersi rialzare, è stato percosso dal padre con numerosi calci ed anche minacciato («Vuoi sposarti con un uomo, allora tirati giù i pantaloni che ti stupro!»). La madre si è quindi affacciata sulla soglia della stanza, ma suo marito ha intimato di andarsene, continuando a colpire il ragazzo, che si trovava rannicchiato sul pavimento.
Ricostruiti in questo modo i fatti, il giudice ritiene, così come contestato dal Pubblico Ministero, sussistente l’aggravante di cui all’art. 604-ter c.p.-
Difatti, per il giudicante: «(…) è estremamente chiaro come l’aggressione perpetrata dal padre nei confronti del figlio abbia avuto una connotazione discriminatoria legata all’orientamento sessuale. Gli insulti in lingua araba aventi carattere chiaramente omofobo e la minaccia di praticare al figlio un rapporto anale non consenziente esprimono, senza che sia necessario aggiungere altro, tutto il disprezzo provato dal genitore nei confronti delle scelte sessuali del figlio adolescente, mostrando una bestialità non giustificabile in alcun modo, nemmeno richiamando presunte convinzioni di carattere religioso. L’intolleranza verso l’omosessualità del figlio, espressa dalle condotte paterne, si rende lampante considerando come l’aggressione sia avvenuta poche ore dopo l’invio del messaggio in cui confessava ai genitori di essere gay».
La sussistenza della circostanza aggravante in parola si fonda sull’aggressione perpetrata ad opera di suo padre, nitidamente ispirata da sentimenti di odio verso l’autonomia manifestata dal figlio minore in ordine alle sue dichiarazioni sulla propria sessualità.
Per il Tribunale non solo sono parse chiare le motivazioni della violenza, ma pure le modalità realizzative della stessa ne hanno rivelato la connotazione ideologica. Conseguentemente è stata ritenuta sussistente la responsabilità penale di entrambi gli imputati che sono stati condannati.
Quello che ha fatto il Tribunale di Milano, nella pronuncia in esame, è un’estensione in sede giurisprudenziale della norma[2].
Il Tribunale meneghino, infatti, dopo aver evidenziato come le condotte fossero mosse da omofobia, pare ritenere che le aggettivazioni dell’odio elencate nella disposizione (etnico, nazionale, razziale o religioso) abbiano solo carattere esemplificativo per quella che verrebbe ad essere un’aggravante per reati a connotazione ideologica.
La carenza di motivazione sul punto, tuttavia, rende difficile comprendere il ragionamento che ha condotto il giudice ad applicare l’aggravante ed è pertanto difficile ipotizzare che questa decisione possa rappresentare un valido precedente per giustificare in futuro l’applicazione dell’aggravante in parola, pur in assenza di un intervento legislativo[3].
In sostanza quindi ciò che è stato fatto con questa sentenza è l’applicazione di una norma, un’aggravante, ad un caso non espressamente disciplinato dalla legge, mediante una estensione giurisprudenziale.
Ed allora, descritti i fatti ed il quadro normativo, volevo spingere il lettore ad una riflessione: è giusto applicare un’aggravante ‒ quindi aumentare una pena ‒ o comunque una legge ad un caso non espressamente previsto dal legislatore, nonostante appaia chiaro che le motivazioni che sottendono l’agire di uno degli imputati siano pacificamente caratterizzate da discriminazione inerente l’orientamento sessuale?
In altre parole, è giustificato, in presenza di un vuoto normativo ed alla luce del principio di tassatività sancito dalla Costituzione ‒ che impone al giudice di applicare solo la legge intesa come norma in vigore ‒ che un singolo giudice possa effettuare tale interpretazione estensiva andando quasi a sostituirsi al legislatore?
E prima di rispondere, riflettete che questo meccanismo potrebbe operare anche al contrario, cioè non fornendo tutele, ma limitandole.
[1] La sentenza è disponibile al seguente link
[2] Tale estensione era avvenuta anche con l’ordinanza del Tribunale di Trieste del 2 dicembre 2011
[3] P. Caroli, Tribunale di Milano applica l’aggravante di discriminazione razziale all’omofobia, in Sist. Pen., 16.01.2023.