[…] sa cogliere, con sguardo sicuro, i simboli segreti; ne dipana le arcane simmetrie e ne ricostruisce, con lievi mani, la cristallina bellezza.
Accade assai spesso che la Verità delle cose si manifesti solo attraverso dei simboli; la lingua stessa è segno e suono che indica sempre l’altro da sé. Non stupisce allora che nel tempo del superficiale non vi sia più posto per la fiaba. Di racconti fantasiosi se ne fanno molti, ma non si creano più fiabe vere e quelle preservate dall’oblio del tempo vengono coscienziosamente ed eticamente distrutte.
Ma che cos’è una fiaba, in verità? È un’immagine simbolica del mondo, è un enigma da risolvere, è una mappa che conduce a tesori interiori, è una scala che porta in alto e oltre la banalità del visibile. La fiaba possiede i suoi luoghi, il suo peculiare scorrere del tempo, le sue leggi naturali e i suoi miracoli. La sua lingua è il simbolo e chi non avrà la pazienza di decifrarlo resterà per sempre sulla soglia: guarderà senza vedere, leggerà senza capire, racconterà senza sapere.
La via della fiaba non è mai diritta, è sempre circolo. Ci si inoltra nel bosco, si viaggia per il mondo ma senza sapere quale sia la meta, o la strada migliore per arrivarci. Perché il viaggio è una ricerca, ma ciò che si trova è sempre altro da ciò che si credeva di cercare. E quale strada è la migliore per giungere a ciò che non si sa di star cercando? Il giovane principe ne La gatta bianca parte tre volte per trovare prima un cagnolino, poi una tela di stoffa, infine una bellissima fanciulla, e tutto per poter ottenere il regno del padre; alla fine guadagnerà per sé tre regni e l’amore di una regina. Nella fiaba la via maestra sono le qualità interiori: bontà, pietà, gentilezza, rettitudine; ad esse corrispondono sempre doni che superano i desideri, poiché sono il sovrabbondante. Madame le Prince de Beaumont in Belinda e il Mostro ne dà l’esempio più compiuto. Belinda, per non dispiacere al padre e alle sorelle, gli chiede di portarle una rosa; è il superfluo, è l’inutile, ed è la cagione della sua fortuna. Perché quel superfluo è chiesto da un animo buono e gentile, pietoso ed onesto: non è il superfluo che fa gola agli animi meschini. Per cogliere quella rosa il padre di Belinda causerà l’ira del Mostro, e per pagare il fio del furto Belinda diverrà sua prigioniera; ma essa saprà scorgere la bontà del cuore del Mostro e se ne innamorerà al punto da volerlo sposare. Solo allora il Mostro si trasformerà in principe, riacquisterà bellezza e spirito: poiché ormai non sono più necessari a suscitare l’amore; poiché Belinda non li desidera, allora le vengono donati gratuitamente, per soprammercato; per questo fu scritto un tempo «A chiunque ha sarà dato, e sarà nell’abbondanza». [1]
La fiaba possiede anche i suoi tempi, e sono quelli della sofferenza, dell’attesa e della gioia. Ma questa giunge veramente solo alla fine, e poche parole bastano a dirla. Accade infatti che nella fiaba si racconti la via che conduce alla felicità, ma questa felicità è sempre al di là della fiaba stessa. Durante il percorso bene e male si affrontano, e spesso il secondo soverchia il primo; ma quando giunge il compimento, il guadagno di tanto patire è mondato e purificato, ed è guadagnato per sempre. Questi sono doni che non si acquistano solo con le proprie forze: una fata madrina, un folletto, un aiuto sovrumano sono indispensabili; questi sono i simboli della Provvidenza e della Grazia che scende dall’alto per illuminare i buoni e i giusti. Ma la Provvidenza ha i suoi tempi, e solo chi possiede la Pazienza può mantenersi degno nella sofferenza: il Mostro deve giungere fin sulla soglia della morte per veder spezzato il sortilegio che lo imprigiona; anche Cenerentola deve attendere la sera, e mezzanotte è il limite imposto alla sua felicità quand’essa è ancora incompleta; il giovane principe di cui abbiamo già parlato dovrà attendere tre anni per giungere alla vera felicità.
Nella fiaba il male è celato e manifesto, in un gioco di specchi tra malignità e bruttezza che maschera solo per mostrare meglio. Questo male è il peccato che infetta l’anima e non può che assumere uno spaventoso sembiante. La Regina cattiva di Biancaneve è bellissima finché l’invidia che la consuma non deve manifestarsi nella forma dell’orrida vecchia che porta la mela avvelenata. Le sorelle di Belinda hanno un cuore di pietra e per questo diverranno statue, e sulla porta del palazzo dovranno assistere alla felicità della sorella che tanto hanno invidiato finché non ne saranno consapevoli e pentite. Qualcosa di simile e diverso deve dirsi del lupo in Cappuccetto Rosso. Il bosco è il mondo naturale, al di fuori dell’ordine civile che regola la vita del villaggio. Inoltrarvisi significa entrare in un mondo altro, dove gli istinti più bassi – quella fame che cade nel peccato di gola – sono moventi più forti dell’onestà e della giustizia. Qui tutto si trasforma: è il regno della menzogna e dell’inganno, dell’illusione che dev’essere smascherata o si sarà perduti per sempre. Così il lupo divora la nonna e ne prende l’aspetto, e appare il perturbante, quel familiare che è sconosciuto. Gli occhi per guardare con amore diventano lo sguardo che brama la rovina, le mani per carezzare diventano gli artigli per ghermire, e i denti per sorridere diventano le fauci per divorare.
Di tutto questo, con molta più grazia e profondità di quanto io possa o sappia fare, scrive Cristina Campo, che in vita fu monaca e fata, ed ebbe di entrambe l’animo e la Grazia. Nelle fiabe lei sa cogliere, con sguardo sicuro, i simboli segreti; ne dipana le arcane simmetrie e ne ricostruisce, con lievi mani, la cristallina bellezza. Il suo pensiero è altro da quello umano, troppo umano, con cui oggi in nome di grandi ideali si fa scempio di queste opere. Sembra quasi, in queste righe, ritrarre se stessa:
Viene da chiedersi non solo se sia rimasta oggi la capacità di discernere il simbolo, di sentire la melodia, ma addirittura se vi siano ancora i luoghi, i tempi e le voci nei quali e con le quali le fiabe possano essere raccontate. Esse appaiono nelle scuole, nei cinema, nelle librerie, nei centri di svago per giovani e bambini, ma sempre rarefatte, storpiate, quasi uccise, totalmente mute. Non è più questo il tempo per fiabe e parabole:
E di questo io ho ancora memoria. Di una nonna che recita una poesia mentre compie i lavori di casa, e in questa poesia ne compare un’altra, e il poeta, che scorge dal treno il cimitero, ha per lei una sola richiesta:
E nel mio ricordo ormai le due sono una, e sento una profonda tristezza per chi vivrà in questo mondo quando non ci saranno più voci capaci di raccontare a chi è capace di capire.
[1] Matteo 13, 12.
[2] Cristina Campo, Della Fiaba, in Gli imperdonabili, Adelphi, Milano 1987, p. 41.
[3] Cristina Campo, In medio coeli, in Gli imperdonabili, cit., p. 15.
[4] Giosuè Carducci, Davanti a San Guido, in Rime nuove, libro V, LXXII.