Percorrendo tradizione e cultura si dipana un viaggio alla scoperta di un popolo e di un luogo altamente simbolici e di come questi ci condurranno inesorabilmente verso la bellezza, ricordandoci che essa si cela nelle cose più semplici e che, altro non è, che un viaggio all’interno delle vite e delle tradizioni millenarie Paceñe.
Nel dizionario dell’accademia reale della lingua spagnola, Paceño significa: ”naturale di La Paz, capitale dello Stato Boliviano”.
Il simbolo che assurge spingendoci all’evasione dalla sovente vacua quotidianità delle nostre vite, come “filo d’arianna”, è la figura che ritroviamo nella donna Paceña, portatrice di una delle molte e sfaccettate tradizioni tra le tante culture indigene presenti sul territorio, la cultura aymara. A queste donne, perpetue lavoratrici ed icone indefesse, si è soliti affiancare l’etichetta linguistica di “Cholita”, diminutivo di ”Chola” ovvero ”meticcio”.
L’estrema spinta verso la modernizzazione non è sempre simbolo di miglioramento e finendo con l’abbracciarla spesso rischiamo di perdere ben altro, più unico ed essenziale per la nostra identità di esseri umani.
Il luogo perfetto per cogliere il miglior “snapshot” delle usanze e della vera vita boliviana dei tempi che furono è “L’isla del sol”. Questa è la più grande del lago Titicaca, dogana naturale tra Bolivia e Perù che si erge a ben 3800 metri sul livello del mare e nelle sue acque, considerate le più alte navigabili al mondo, si contiene l’origine del più grande e poderoso mito della storia della colonizzazione latino americana. È proprio da qui che provengono i due Inca Manco Càpac e Mama Ocllo che su ordine di Inti (Dio del Sole) hanno fondato Cuzco, la città che sarebbe poi diventata la capitale dell’impero.
Il lago è sacro e tradizioni, mito e storia ne sono imbevute in una tricotomia inestricabile ed in ”entanglement”. “Titi Khar’ka o “roccia del puma” non si tocca, lo si rispetta per quello che la mitologia vuole che sia il luogo in cui la civiltà Inca è cominciata.
Cotanta magnificenza non poteva essere ignorata e, arresasi all’evoluzione culturale e allo scorrere inesorabile del tempo, sempre più oggetto di turismo, non manca comunque di regalare forza risonante che ci spinge e ci invita all’incontro con noi stessi rievocando archetipe sensazioni. Si finisce per proiettarsi in un mondo perduto, fuori dal tempo e la sensazione di libertà che si può assaporare fa di questa una delle poche ed incontaminate perle disseminate nel mondo al giorno d’oggi ove rifugiarsi e dove gentilezza e generosità sono colte vivendo direttamente sulla propria pelle quel genuino spirito che solo una nazione così povera e sincera può regalare. Riscoprire se stessi attraversando campi coltivati, valli in fiore che si slanciano sul lago in ambo le direzioni dipingendo il paesaggio come fosse una tavolozza di colori di mille sfumature strabilianti. Non ci sono lampioni per le vie e quando si fa notte le uniche luci sono quelle della luna e delle stelle. La singolare magia evocata da questa pacata comunità rurale autogestita la si scopre attraverso le antiche rovine arrivando al cospetto della ”Roca Sagrada” fino a giungere alla “Mesa Ritual” dove in passato si ergeva un luogo sacro nel quale si elargivano sacrifici umani alle divinità.
Il mito aymara ci narra di un principio dualistico ordinatore presente nel mondo. Uomo-donna, superiore-inferiore, cielo e terra, così come positivo-negativo e giorno e notte, non sono altro che ”diairesis” che s’infittiscono sotto la personificazione del sole e della luna e dove tutto tende all’infinita unità sempre divisa ricollegandosi a “pachamama”, la madre terra.
Chissà quanti altri segreti celati si trovano nel venerando lago dove città sommerse sono già venute a galla come antichi testimoni e dove molte altre paiono ancora riposare a causa della mancanza di finanziamenti per le esplorazioni.
È in posti come questo che si è spinti ad abbandonarsi alla bellezza immacolata ed apparentemente immobile della natura e a comprenderne intuitivamente i suoi misteri. Si fa esperienza con il cuore e il raziocinio cessa di esercitare tirannia sul pensiero. Qui si dorme seguendo i ritmi del sole, vi è un aperto invito alla meditazione ovunque si finisca per trovarsi. Infatti nella semplicità del gregge che mentre cala il sole, scompare dietro le montagne rientrando all’ovile, si finisce per ritrovarsi soli e in silenzio. “Com’è dolce il naufragar in questo mar”.
La vera “Cholita” padroneggia il suo destino per scelta ed è, il più delle volte, per continuare la tradizione della famiglia. “Mia mamma, mia nonna sono Cholitas: per questo lo sono anch’io”. Queste vecchie signore appaiono agghindate di tutto punto da una lunga e voluminosa gonna detta “pollera”, di un sombrero stile bombetta che dà risalto alle lunghe trecce nere spesso recanti exstension appariscenti e da sgargianti ballerine colorate. Il loro fascino è colto nel loro natural incedere avanzando con il loro bimbo fasciato e poggiante sulla schiena grazie all’uso di tessuti abilmente rifiniti che non manca di evocare e dischiudere un mite tepore nell’anima. Un tempo erano discriminate per ciò che indossavano e non gli era permesso assumere alcun ruolo rilevante in società.
È rara fortuna poter vivere luoghi e persone che hanno mantenuto intatta la loro essenza e la loro cultura originaria, quell’ingenuità innocente regolatrice che ci porge all’incontro con la sensibilità e che fa far capolino a cotanta meraviglia per coloro che vi si affacciano con occhi occidentalizzati. L’estrema spinta verso la modernizzazione non è sempre simbolo di miglioramento e finendo con l’abbracciarla spesso rischiamo di perdere ben altro, più unico ed essenziale per la nostra identità di esseri umani.
Anche qui l’impulso riflesso dettato dalla globalizzazione e tendente al mutamento e al progresso è oggi uno dei tanti elementi di una Bolivia che sta scegliendo di cambiare sin dagli anni 80’ e dove, in questi anni, le “Cholitas” hanno ottenuto sempre maggiori diritti grazie ai quali possono esercitare nuove professioni fino ad ora impensabili. L’ambito politico, quello sportivo e quello dei mezzi di comunicazione sono qui ed ora accessibili e il rischio di abbandonare le loro tradizioni più proprie, quelle che le definiscono univocamente, a favore di una società moderna sempre più orientata al profitto e alla prevaricazione, rischia di eliminare parte di un’autenticità che soppianta il concetto di vita naturale per trasporlo verso un effimero che mai si placa e che tutto vuole divorare. Un viaggio siffatto mozza la parola e spazza via la polvere sedimentatasi nel segno dell’obbligatorietà contemporanea di dover indossare, a seconda dell’occasione, le più disparate maschere calpestando cosi la tanto agognata ma spesso bistrattata natura.
Chi mai pensò di dover giocare con la vita come fosse un carnevale?