Siamo sistemi complessi immersi in un intreccio mobile di fili annodati di una civiltà tecnologica che avanza a grandi passi.
A Sais, nell’antico Egitto, Iside, divinità protettrice della salute e della vita, era rappresentata con il volto velato ed accompagnata da questa iscrizione : “Io sono tutto ciò che fu, ciò che è e ciò che sarà e nessun mortale ha ancora osato sollevare il mio velo”. Come si legge nelle Metamorfosi di Apuleio, questa dea rappresentava anche la sapienza e l’origine: “ Io sono la genitrice dell’universo[…]l’origine […]sono io che governo col cenno del capo[…]la volta celeste, i salutiferi venti del mare, i desolati silenzi degli inferi”[1]. Novalis racconta poi che, un giorno, un discepolo sollevò il velo della dea: “Ebbene, che vide? Vide – meraviglia delle meraviglie – se stesso”[2].
Il velo della dea di Sais è lo strumento che serve a risvegliare un senso di responsabilità, insito in ogni individuo che, collocandosi nella prospettiva del filosofo Hans Jonas, è tenuto a rispondere ad un appello nei confronti delle generazioni presenti e future, nella costruzione di una società rispettosa della dignità, della privacy, della giustizia e della solidarietà.
Quindi cosa sarà davvero quel velo?
La realtà in cui viviamo è profondamente segnata dal mutamento: tutto scorre, come diceva Eraclito, nulla rimane uguale e statico. Siamo sistemi complessi immersi in un intreccio mobile di fili annodati di una civiltà tecnologica che avanza a grandi passi. In questa difficoltà, l’identità umana si confonde continuamente e dimentica la sua responsabilità di sistema complesso che deve trovare orizzonti e modalità con cui slegare nodi e dipanare la matassa.
La responsabilità, una delle più belle modalità attraverso la quale il soggetto articola il suo essere nel mondo, è però momento negativo: mette in tensione il soggetto, ma, inaspettatamente, diviene motore che genera parola ed azione, senza togliere nulla. Essere responsabili significa infatti rispondere ad una chiamata personale indelegabile; ma è anche essere esposti, essere quindi davanti a ciò che quel velo cela con la propria libertà di fuggire ma costantemente richiamati da quello stesso velo che attrae l’identità umana come una calamita. Esseri umani liberi e ribelli ma, parafrasando Rousseau, “ ovunque in catene” di responsabilità.
La responsabilità che si riaccende davanti a quel velo misterioso investe ogni soggetto di impegno e di coscienza. Incarnare la responsabilità è togliere il velo, senza paura, ma consapevoli di aver scelto di ascoltarne l’appello e di sollevarlo per scoprire cosa c’è dietro e capire di poterne usufruire in maniera diversa per ciò che contiene e per il suo immenso potere da gestire responsabilmente, quindi eticamente ed umanamente.
Il velo della dea di Sais è proprio la tecnologia, dimensione che muta gli individui e muta insieme ad essi; è tramite tra l’uomo, il suo originale stare al mondo, e la verità, ovvero l’essenza vera. La tecnologia fa nascere responsabilità attraverso la paura: “ Soltanto il previsto stravolgimento dell’uomo ci aiuta a formulare il relativo concetto di umanità da salvaguardare; abbiamo bisogno della minaccia dell’identità umana[…]per accertarci angosciati della reale identità dell’uomo[..]”[3].
La tecnologia, velo della dea, si pone quindi come un elemento terzo, che è sia tremendum che fascinans. Tremendum perché rappresenta il rischio per l’essere umano di alienarsi e di perdere se stesso e fascinans perché, contemporaneamente, può rappresentare una via per riappropriarsi di se stessi, riscoprendo il proprio valore ( si pensi alle intelligenze artificiali o agli odierni sistemi informatici nei posti di lavoro che permettono di svolgere più azioni contemporaneamente o all’uso delle tecnologie in casi di disabilità). La tecnologia è momento drammatico e allo stesso modo, elemento rigenerativo. Essa scombussola un ordine precostituito per generarne un altro, facendo emergere un nuovo tipo di agire in ogni ambito, specialmente quello lavorativo. Nel passato, secondo Jonas, il potere umano di agire sulla realtà e trasformarla rispondeva alle necessità e si confrontava con l’immutabilità della realtà e con la piccolezza umana nei confronti della divinità. Oggi, invece, l’azione umana si scontra con la vulnerabilità della natura, dell’intera realtà e quindi dell’umanità stessa, e la tecnologia sembra essere diventata la vocazione umana, la realizzazione della sua vita oltre limiti:
la tecnica assume rilevanza etica in virtù del posto centrale che ora occupa nel disegno dell’uomo[…]l’espandersi del suo potere si accompagna ad una contrazione dell’immagine che egli ha di sé e del suo essere. […]l’uomo è ora sempre più l’artefice di ciò che ha fatto e che può fare, e soprattutto colui che stabilisce ciò che sarà in grado di fare[…]si tratta della totalità degli uomini[4].
L’essere umano è però messo in discussione da questo tremendum / fascinans ed è proprio la responsabilità etica a doverlo salvare: “ questo compimento del suo potere, che preannuncia verosimilmente la sopraffazione dell’uomo, questo soggiogamento finale della natura da parte dell’artificio, fa appello alle ultime risorse del pensiero etico”[5].
La tecnologia è quel velo della dea che, sollevato da chiunque voglia avvicinarsi per scovare la verità, mosso dalla passione o da una domanda esistenziale, non mostra nient’altro che l’immagine di se stessi: è uno specchio.
Guardandosi tremanti in quello specchio sopraggiunge la responsabilità: sentimento disperante che incombe, scompone e mostra la fragile nudità umana e il suo modo di darsi in questa società.
Come si può usare la tecnologia in maniera etica, in particolare nel mondo del lavoro, luogo in cui si soffoca l’essere per il fare, dove l’umana fragile nudità si nasconde dietro un’attività immersa nel continuo mutamento? Tornando a riflettere sulla propria azione, universalizzandola, fondandola personalmente, pur aprendola al futuro della vita dell’intera umanità. Oltrepassando se stessi e la realtà. Fondando una nuova azione lavorativa e sociale a partire dall’oltre e dal caos.
Nel mito greco, il caos era immensità, vuoto ed è proprio da quest’ultimo significato che bisogna ripartire. Il vuoto cosmico è luogo di perdizione, ma dove paradossalmente si genera energia, movimento e quindi,oserei dire,vita. Il vuoto reclama la responsabilità: nel lavoro e in ogni ambito gli esseri umani hanno bisogno di ‘essere online’, di riempirsi di rumori e non di silenzio, di adesso e non di oltre, perché? Perché il vuoto fa paura in quanto scuote le coscienze. La tecnologia quindi, come velocità, distrazione, caratteri digitali che di carne non hanno alcuna sembianza, ma anche come risoluzione, sostegno e soddisfazione, disordine tremendum ma fascinans, ci rivela bensì un disordine formato da vuoti di vene e muscoli da curare. La tecnologia ci riconsegna l’immagine dell’uomo: un vuoto cosmico di pieghe d’esistenza che ha paura della sua fragilità e di guardarsi per ‘oltrepassarsi’.
In conclusione, dunque, ogni uomo può farsi essenza agente tecnologicamente etica ed eticamente tecnologica quando, nella responsabilità, si scopre filo intrecciato ai tanti altri sistemi complessi e che proviene da un vuoto, ma dove vi è meraviglia e si genera energia e movimento.
[1] Apuleio, Metamorfosi, XI, 5.
[2] Novalis, I discepoli di Sais, Tranchida editore, Le voci, 2009, p. 15.
[3] Hans Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica [1979], a cura di Pier Paolo Portinaro, Torino, Einaudi, 2002, p. 35.
[4] Hans Jonas, Dalla fede antica all’uomo tecnologico. Saggi filosofici, Il Mulino, 1991, p. 45.
[5] Ivi