Il Razzismo Instituzionalizzato

Una fotografia americana: la lotta per la giustizia che passa anche dalla rinuncia alle armi

Sara Simon
Attualità

Lunedì 25 maggio un uomo è morto. Quell’uomo, ormai tristemente noto alla cronaca mondiale si chiamava George Floyd, era afro-americano, aveva 46 anni, esercitava come addetto al controllo (in gergo ‘buttafuori’) in un ristorante di Minneapolis nel Minnesota, ed è morto soffocato per mano della polizia durante il suo arresto a causa di un pagamento che avrebbe compiuto con un assegno falso. Il triste episodio ‒ che ha avuto maggior risonanza mediatica rispetto ad episodi simili perché documentato dai passanti in strada ‒ si accoda agli altrettanto tristi episodi a cui la cronaca americana ci ha, nostro malgrado, abituato.

Lotta ai diritti civili

Il filo comune è la testimonianza dell’esistenza di una sproporzione di fatto nell’uso della forza da parte dei corpi di polizia che colpisce in modo sistematico gli afro-americani. In molte città degli Stati Uniti, infatti, ogni incontro con la polizia rischia di diventare qualcosa di ingiustificatamente violento, in particolar modo se la persona che si relaziona con gli agenti è di etnia nera.

 Le azioni sono state plausibilmente compiute per il piacere di esaltare l’ego di chi sa di poterlo fare col beneplacito di un sistema omertoso.

La disparità di trattamento non si riscontra solo nei rapporti con le forze di polizia, ma si estende al trattamento legale generale riservato agli afro-americani e sfocia in quello che viene definito razzismo istituzionalizzato. Gli afro-americani, infatti, ricevono in media pene più dure a parità di crimine e specularmente i crimini commessi nei loro confronti sono generalmente considerati meno gravi.
A tal proposito il Marshall Project – l’organizzazione no profit di giornalismo che si focalizza su questioni relative alla giustizia penale negli Stati Uniti – ha analizzato i tentativi di riforma delle forze di polizia del Minnesota, uno Stato a maggioranza bianca. Le ragioni del reiterarsi di episodi di violenza sono da ravvisarsi, secondo quest’analisi, sia nella mancata rimozione dal servizio di soggetti già colpevoli di abusi, sia nella mancanza di chiari criteri circa l’uso della forza. Lo stesso Derek Chauvin, responsabile di aver premuto col ginocchio il collo di George Floyd a terra fino a provocarne il brutale soffocamento, era in passato già stato oggetto di reclami ma nonostante questo era stato mantenuto in servizio.
La necessità di una riforma delle forze di polizia di Minneapolis era già chiara nel 2012, quando Jenée Harteau, primo donna a ricoprire il ruolo di Capo di polizia, promise subito dopo la sua nomina di apportare modifiche al sistema: tra le più importanti, vennero ridotte le circostanze in cui un agente è autorizzato ad uccidere un sospettato e nel 2016 venne anche riscritto il regolamento sull’uso generale della forza, concentrandosi sulla sacralità della vita e quindi introducendo nuove regole che permettevano di intervenire per fermare un collega in procinto di commettere un abuso.
Mentre alcuni aspetti venivano quindi ridimensionati in senso migliorativo, altri venivano pericolosamente trascurati: ad oggi, infatti, da regolamento di dipartimento, un agente è ancora autorizzato a soffocare un soggetto fino a fargli perdere conoscenza se ritiene che stia opponendo resistenza attiva. Esiste pertanto una formale accettazione della possibilità della morte quando questa sia stata causata da quello che si definisce essere un legittimo uso della forza da parte degli organi di polizia.
Ciò che è certo è che le azioni di Derek Chauvin, e degli altri 3 agenti rei di non aver fermato quel gesto inqualificabile sotto ogni punto di vista ma riprovevole soprattutto per ferocia e cattiveria, non costituivano un uso legittimo della forza e si sono abbattute su un uomo che accettava il suo arresto in modo collaborativo e senza opporre resistenza.

Le azioni sono state plausibilmente compiute per il piacere di esaltare l’ego di chi sa di poterlo fare col beneplacito di un sistema omertoso, violando quella sacralità della vita sancita dallo stesso regolamento di dipartimento.

«Mio papà ha cambiato il mondo!» abbiamo sentito esclamare da Gianna Floyd, di appena 6 anni, e pare che la piccola possa avere ragione. La morte di Floyd ha generato un’onda d’urto che ha inaspettatamente invaso l’intero pianeta: da giorni folle implacabili di esseri umani dimenticano per qualche ora le regole sul distanziamento sociale e marciano in piazza reclamando diritti e giustizia per le persone di etnia nera. Tra questi ha acquisito una forza importante il movimento Black Lives Matter che dal 2013 lotta contro l’oblio che circonda questo tipo di violenze. Quale ulteriore comburente al fuoco di disordine e violenza per la lotta ai diritti civili, si aggiungono non solo le proteste per i considerevoli disagi causati dalla pandemia virale in corso ‒ alle quali il governo americano non sa evidentemente dare risposte adeguate ‒ ma anche un Presidente che sceglie di allontanarsi dal ruolo istituzionale che gli spetta preferendo nascondersi in un bunker di sconosciuta ubicazione ove poter difendersi dal tumulto circostante, nonché  godere della giusta tranquillità per twittare messaggi sconnessi che sembrano voler fomentare ulteriori conflitti piuttosto che svolgere un ruolo pacificatore.
    A prescindere da questi ultimi aspetti, che contribuiscono a delineare una situazione oltreoceano tutt’altro che rassicurante, è bene tenere in considerazione un’ulteriore circostanza quando parliamo di violenza negli Usa. É infatti necessario, oggi più che mai, prendere posizione sul tema del razzismo a tutti i livelli ed appoggiare caldamente una riforma dei regolamenti affinché non esistano più vittime – di etnia bianca o nera che siano – di forze di polizia che operano in antitesi a quello che dovrebbe essere il loro ruolo primario: garantire la sicurezza dei cittadini. D’altra parte, va tenuto in considerazione un ulteriore aspetto che non giustifica, ma permette forse di esaminare da un’altra prospettiva perché gli agenti reagiscano in modo sistematicamente violento, anche in assenza di una previa valutazione sull’effettiva necessità di operare con violenza nella situazione contingente – non rientra però in quest’analisi il caso Floyd che non risulta comprensibile o giustificabile da alcuna prospettiva lo si guardi –. Tale aspetto è ravvisabile nella grande quantità d’armi presente negli Stati Uniti e nella facilità con cui è possibile procurarsene una. Un report del Congressional Research Service dimostra come negli Usa siano presenti più armi che uomini, essendo le armi in circolazione circa 357 milioni contro una popolazione di soli 318,9 milioni di persone. La proporzione può essere meglio compresa considerando che qui risiede il 4,4% della popolazione terrestre, che costituisce parallelamente il 42% dei civili armati del mondo, e non può pertanto sorprendere che gli Usa detengano il record di maggior numero di omicidi per arma da fuoco. Le armi sono inoltre facilmente procurabili: in buona parte degli Stati Uniti chiunque abbia almeno 21 anni può comprare una pistola, mentre i maggiori di 18 anni possono acquistare un fucile o un fucile a canna liscia; è sufficiente esibire un documento di identità al venditore che si limiterà a registrare i dati e ad associarli all’arma.
Date queste premesse, è facilmente intuibile come le forze di polizia siano consapevoli che esiste l’alta probabilità di interagire con soggetti armati durante il servizio, e che ciò può rivelarsi oltremodo pericoloso fomentando tensione ed alimentando un non trascurabile istinto di sopravvivenza anche nell’uomo che veste la divisa. La compravendita di armi eseguita in modo così sconsiderato passa dall’essere una fonte di tutela per il cittadino, all’essere fonte di ingestibili tensioni che possono causare la morte di persone innocenti.
    Alla luce di ciò, sarebbe quindi auspicabile incoraggiare una rivisitazione del secondo emendamento della Costituzione americana che prevede il diritto dei cittadini di possedere armi a garanzia della sicurezza dello Stato. Tale emendamento, particolarmente caro alle lobby delle armi tra cui la National Rifle Association che ha appoggiato la corsa di Trump alla Casa Bianca, risale però al 15 dicembre 1791, quando ancora non esistevano attrezzature in grado di sparare 100 colpi al minuto. Tale appiglio legislativo risulta pertanto palesemente anacronistico: la sicurezza di uno Stato infatti non si raggiunge attraverso la concessione della possibilità per chiunque di detenere un’arma, perché questo tipo di gestione ad oggi può causare unicamente disordini, danni e soprattutto morte. Infine, la speranza di cambiamento in tal senso non va plausibilmente riposta in chi è stato reso sordo e cieco al bene dal tornaconto economico o politico derivante dalla vendita delle armi, ma nei cittadini, che col loro voto possono scegliere di essere governati da chi tutela e protegge la loro vita anche attraverso la revisione delle leggi che permettono questo genere di compravendita.

Jamiles LarteySimone Weichselbaum, Perché è così difficile riformare la polizia statunitense?,  in The Marshall Project. Tradotto per Internazionale da Andrea Sparacino. Reperibile al sito https://www.internazionale.it/notizie/jamiles-lartey/2020/06/01/riforme-polizia-stati-uniti

“Due parole conclusive su George Floyd, le proteste e Antifa”, Breaking Italy, puntata del 1.06.2020, reperibile al sito https://www.youtube.com/watch?v=rh53JyZFKsU&t=202s

Eugenio Spagnuolo, 11 Cose che (forse) non sai sulle armi da fuoco negli Stati Uniti, in Focus, reperibile al sito https://www.focus.it/comportamento/economia/armi-da-fuoco-in-america