Il paradosso
della finzione:
il potere
dell’immaginazione

Valeria Sokolova
Filosofia

Oltre ad un oggetto di ammirazione, un’ispirazione e magari anche un tentativo di passare il tempo, le arti sono soprattutto una grande opportunità di educazione, dal momento che trasmettono, nella maggior parte dei casi, un messaggio etico-morale.

Per cominciare, vorrei che immaginaste di guardare assieme a me una rappresentazione teatrale di Anna Karenina. Vediamo la protagonista in uno degli ultimi episodi dell’opera: è in piedi sulla banchina della stazione. Suoni e rumori, il fumo sibilante dei treni in arrivo e in partenza, la circondano. Persone indistinte le ronzano attorno come uno sciame di vespe. Tutto è confuso nella testa di Anna. In quest’istante di approsimazione alla follia, ricorda il primo incontro con Vronsky e concepisce il modo in cui può risolvere il suo conflitto interiore: deve togliersi la vita. Salta dalla banchina tra i binari del treno in corsa verso di lei. In un paio di secondi vediamo Anna sparire. Molto probabilmente la sua morte dovrebbe rattristarci o commuoverci sino alle lacrime. Ma avete mai pensato al perché, mentre assistiamo a scene di questo tipo, non ci alziamo immediatamente dai nostri posti e corriamo sul palco per salvare Anna da una morte ineluttabile? Perché capiamo perfettamente che Anna Karenina è un personaggio fittizio, come lo è tutta la sua vita e la fine di essa. Tuttavia, in qualche modo la sua morte, come quella di qualsiasi altro personaggio di fantasia, provoca le stesse emozioni che proveremmo nella vita reale, se fossimo testimoni di una storia simile con i nostri occhi o l’avessimo appresa da qualcun altro. Il paradosso della finzione ‒ cioè il paradosso della risposta emotiva alla finzione ‒ ha occupato le menti dei filosofi da quando Colin Radford e Michael Weston, due cognitivisti, lo problematizzarono esplicitamente nel 1975. Quell’anno pubblicarono un articolo dal titolo Come possiamo commuoverci per il destino di Anna Karenina?, nel quale esposero l’essenza del paradosso, le sue premesse, e ne proposero anche alcune soluzioni.

La ‘struttura’ del paradosso è composta sostanzialmente da tre premesse che sono contraddittorie se considerate congiuntamente. Il punto nodale di questo dilemma ruota intorno al problema: come gli esseri umani possono essere commossi da personaggi di fantasia che non esistono nella realtà? Le premesse sono:

(1) è necessario credere nell’esistenza reale di un accadimento affinché esso ci commuova ‒ sia la causa diretta dell’insorgere di una o più emozioni;

(2) tale credenza nell’esistenza reale viene necessariamente meno quando siamo consapevoli di avere di fronte un’opera puramente fittizia;

(3) davanti ad una rappresentazione fittizia noi possiamo concretamente commuoverci, ossia essa può essere causa diretta di emozioni concrete.

A prima vista queste proposizioni sembrano essere abbastanza logiche, ma ad un’indagine più approfondita si rivelano incoerenti. Sono state proposte molte soluzioni a questo paradosso e si continuano a costituire nuovi approcci ed idee. In questo articolo prenderò in esame solo alcune di esse. Il problema fondamentale del dibattito ruota intorno a quale delle premesse suesposte sia da ritenersi errata.

La prima premessa riguarda la teoria cognitiva delle emozioni, la quale afferma che le nostre emozioni sono razionali e si basano su giudizi della ragione e credenze. Per capire l’importanza del ‘credere nell’esistenza concreta‘, immaginiamo che un evento particolarmente doloroso che avevamo creduto realmente accaduto alla fine si riveli falso o fittizio. Letteralmente non ci accorgeremmo di quanto rapidamente i nostri cuori martoriati riacquisterebbero il loro spirito. Tali credenze, secondo Radford, richiedono l’intervento della razionalità: «Sembrerebbe che io possa essere commosso dalla situazione di qualcuno solo se credo che gli sia successo qualcosa di terribile. Se non credo che gli sia realmente accaduto o non stia soffrendo o altro, non posso addolorarmi o commuovermi fino alle lacrime». [1] Inoltre, non solo ciò che vediamo può farci, per esempio, arrabbiare, ma anche ciò che pensiamo: «Non è solo vedere il tormento di un uomo che ci tormenta, è anche il pensiero del suo tormento che ci tormenta, o ci turba o ci commuove. Ma qui il pensiero implica la convinzione». Questa è un’ulteriore conferma del fatto che è necessaria la razionalità nei nostri pensieri per sostenere il credere. Tuttavia, Radford non vede un problema nell’essere commossi dai romanzi storici o dalle opere teatrali o dai film-documentaro, perché di solito sono basati su vite di persone reali e ritraggono la loro reale sofferenza. [2] Al contrario, Spinnici sostiene che non ci sono ragioni inconfutabili per affermare che le emozioni implichino obbligatoriamente delle credenze. Come esempio porta un’evidenza fenomenologica che contrasta questa teoria ‒ teoria che suppone una sostanziale differenza tra ‘assumere che’ ed ‘immaginare che’, in quanto quest’ultima fattispecie presuppone il coinvolgimento in una data situazione senza che sia necessaria la certezza della sua esistenza concreta. [3]

La seconda premessa afferma che, ‘catturati’ dalla lettura o dalla visione di un’opera fittizia, in un certo senso ‘dimentichiamo’ che la natura di ciò in cui siamo impegnati non ha alcun fondamento di esistenza concreta nella realtà. Paolo Spinicci la definisce una duplice dimenticanza: «Il lettore dimentica, pro tempore, sia il sistema delle sue credenze che la sua consapevolezza del carattere fittizio del racconto» [4]. Ci facciamo ‘catturare’ da essa e perdiamo la consapevolezza del suo carattere di finzione. Le fiabe lo esemplificano abbastanza bene. Alcune di esse sono decisamente molto crudeli nelle loro trame. La versione originale della Cenerentola dei fratelli Grimm narra che le sorellastre vengono alla fine accecate da dei piccioni. Ma perché, bisogna chiedersi, questa terribile sofferenza appare nel racconto anche se non influisce in nessun modo nella compiutezza della trama? Se il lettore la considera come la ‘punizione da lungo attesa’, aprirà la strada a una percezione più conturbante del ‘lieto fine’. In altre parole: creerà una sorta di ‘montagna russa’ emotiva che saturerà emotivamente la sua esperienza letteraria. Tuttavia, bisogna altresì ricordare il piacere estetico che accompagna anche le nostre emozioni più oscure, che siano esse la paura, la tristezza o la pietà. Per esempio, quando vediamo un leone ruggente in un film, questo non scatena in noi il bisogno di scappare, ma ci dà una sensazione di turbamento di fronte all’ingovernabilità della natura selvaggia. Inoltre, come è stato detto nel primo paragrafo, quando vediamo un personaggio molto amato in pericolo o che addirittura muore sul palcoscenico o in un film, solitamente non prendiamo nemmeno in considerazione l’idea di provare a fare qualcosa, o il pensiero che dovremmo fare qualcosa per salvarlo.

L’ultima premessa ci pone di fronte ad una domanda: Proviamo veramente delle emozioni suscitate direttamente da eventi fittizi? Walton, per risolvere il paradosso, dà una riposta negativa. Ha infatti proposto la nozione di quasi-emozioni, che indica come esse siano in effetti prive della dimensione del ‘credere che…’. Di conseguenza, queste quasi-emozioni ci coinvolgono solo nella finzione. Secondo Walton, «quando immagino ‘p’, posso provare non una vera emozione, ma solo una quasi-emozione, perché manca un ingrediente essenziale della vera emozione ‒ la mia convinzione che ‘p’ esiste”. [5] È così che egli risolve il paradosso: implementando la teoria della finzione sostituendo, nella terza premessa, alle emozioni effettive delle emozioni ‘putative’.
Abbiamo dunque visto quanto siano estremamente diverse le varietà combinatorie di queste proposizioni. Tuttavia, avvicinandomi alla fine delle mie speculazioni sul tema del paradosso della finzione, devo ammettere che ancora una volta mi ha positivamente stupito il potere dell’immaginazione e l’impossibilità di definirla: è simile al cappello senza fondo di un mago, nel quale una miriade di oggetti appaiono e scompaiono. Anch’io, lavorando su questi temi, ho adottato una nuova prospettiva ‘aperta’ sullo scopo della finzione e, di conseguenza, dell’arte. Oltre ad un oggetto di ammirazione, un’ispirazione e magari anche un tentativo di passare il tempo, le arti sono soprattutto una grande opportunità di educazione, dal momento che trasmettono, nella maggior parte dei casi, un messaggio etico-morale. Per esempio, se vedo Anna Karenina gettarsi sotto il treno a causa del suo destino infelice e sfortunato, non ho bisogno di gettarmi sotto un treno per capire quanto sia pesante il suo cuore nel momento del gesto fatale. Grazie alla capacità umana di comprendere ed immedesimarsi nelle emozioni del personaggio fittizio, la necessità di compiere concretamente la stessa azione viene meno. L’empatia è uno dei più grandi doni che l’immaginazione e la narrativa hanno dato l’umanità.

[1] Colin Radford and Michael Weston: “How can we be moved by the fate of Anna Karenina?” (1975), p. 68

[2] ibid. p. 69

[3] Paolo Spinicc: “The Concept of Involvement and the Paradox of Fiction” (2014), p. 81

[4] ibid. p. 78

[5] See Kendall Walton: “Mimesis As Make-Believe: On the Foundations of the Representational Arts” (1993)

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