Il padre venerando e terribile

Parmenide di Elea

Thomas Masini
Filosofia

L’ontologia nasce con le parole di Parmenide di Elea, allievo di Senofane e padre – come scrive Platone nel Teeteto – «venerando e insieme terribile» della filosofia. Di lui, sempre Platone ma nel Parmenide, lascia un ritratto in occasione della sua visita alle grandi Panatenee: « […] era già molto vecchio, molto bianco di capelli, bello e nobile a vedersi, sui sessantacinque anni di età». 

Davvero un grande padre, se ancora oggi, dopo più di millecinquecento anni, i suoi frammenti sono fecondi di pensiero. Ma per quale motivo essi sono così importanti, studiati, citati e amati? È questa la domanda cui ora cercheremo di dare risposta.

Il poema parmenideo Sulla Natura inaugura quella che si definisce ontologia, ovvero la scienza dell’Essere in quanto Essere. Appartenente a quei pensatori presocratici che Aristotele definiva “fisiologi”, ovvero coloro che studiavano filosoficamente la natura (physis), la ricerca di Parmenide si focalizza tuttavia su una domanda più astratta e fondamentale: che cos’è l’Essere? In altre parole, quale natura possiede ciò che accomuna ogni cosa che esiste per il solo fatto di esistere? L’unica cosa che si può predicare di tutto ciò che esiste è il suo partecipare dell’esistenza, ovvero dell’Essere. E allora la filosofia, nella sua inesausta ricerca dell’arché, proprio dall’Essere deve partire.

Non si tratta di enunciare un carattere, una qualità propria seppur importante, ma di riconoscere il senso vero e profondo dell’Essere: l’Essere è.

Questa la via che percorre Parmenide, sul carro trainato da cavalle, «posto sulla via che dice molte cose,/ che appartiene alla divinità», e dopo aver superato «la porta, eretta nell’etere, [e] rinchiusa da grandi battenti» così prosegue: «E la Dea di buon animo mi accolse, e con la sua mano la mia mano destra / prese, e incominciò a parlare e mi disse così».

Quali parole possono seguire ad un così maestoso proemio? Probabilmente tra le più fatali di tutto l’umano pensiero:

Ora, io ti dirò – e tu ascolta e ricevi la mia parola – 

Quali sono le vie di ricerca che sole si possono pensare:

l’una che «è», e che non è possibile che non sia

‒ è il sentiero della Persuasione, perché tien dietro alla Verità ‒

l’altra che «non è», e che è necessario che non sia.

E io ti dico che questo è un sentiero su cui nulla si apprende.

Infatti, non potresti conoscere ciò che non è, perché non è cosa fattibile,

né potresti esprimerlo. [Parmenide, fr. 2] 

Parmenide compie un viaggio alla ricerca della Verità, e la Dea insegna al filosofo qual è la via che si deve percorrere se si desidera conquistare la conoscenza. 

La prima: «che «è», e che non è possibile che non sia», è la via positiva, la via dell’affermazione; l’essere è – si tratta tutt’altro che di una tautologia – e non può non essere. Di tutto ciò che è essere, ovvero di tutto ciò che esiste in quanto partecipa dell’essere, è necessario dire che è, è necessario riconoscere ed affermare la sua esistenza. Non si tratta di enunciare un carattere, una qualità propria seppur importante, ma di riconoscere il senso vero e profondo dell’Essere: l’Essere è. Da questa semplice, pura e diamantina considerazione si possono trarre conseguenze inimmaginabili. Il senso dell’Essere, la sua “natura”, la sua “essenza” è quella di essere: di tutto l’Essere, ciò che al fondo è il medesimo in ogni differente, ciò che istituisce ogni esistente (l’intero universo, ogni galassia, pianeta, montagna, animale, pianta, filo d’erba e granello di polvere)  in quanto esistente, si può predicare la stessa cosa: è. Percorrendo questa via, la via dell’Essere che è e non può non essere, si giunge alla comprensione vera e profonda della Verità.

La seconda: «che «non è», e che è necessario che non sia», è la via negativa, la via della negazione: il non essere non è, e non è possibile che sia. Se tutto il campo dell’esistente, il che equivale a dire “il campo” tout court, appartiene all’Essere, allora al non-essere non appartiene alcun campo, è privazione totale, è nulla di esistente e, quindi, nulla in assoluto. Non vi è cosa della quale si possa dire che essa “non è”, sia pure esistente solo come idea astratta o immaginifica. Il non-essere è un vuoto di contenuto, e persino le parole “non-essere”, “vuoto”, “nulla” appartengono al campo dell’essere, ma il loro riferimento, ciò che vorrebbero indicare, è inesistente; sono come frecce lanciate verso un bersaglio che è nulla: esse esistono, ma lo scoccarle non ha obbiettivo alcuno. Il non-essere, scrive infatti Parmenide, non si può né dire, né pensare

È necessario il dire e il pensare che l’essere sia: infatti l’essere è,

il nulla non è: queste cose ti esorto a considerare. 

[Parmenide, fr. 6, 1-2]

 Vi sono poi non una, ma due vie dalle quali l’uomo sapiente deve tenersi lontano: la via del non-essere e la via «su cui i mortali che nulla sanno / vanno errando, uomini a due teste: infatti è l’incertezza / che nei loro petti guida una dissennata mente». Questa seconda è quella della confusione, ovvero la strada dei mortali bicefali «dai quali essere e non-essere sono considerati la medesima cosa / e non la medesima cosa, e perciò di tutte le cose / c’è un cammino che è reversibile».

La Verità (alétheia) ci mette in guardia mentre percorriamo la folle strada dell’opinione (dòxa): le due vie non possono confondersi, essere e non-essere sono opposti per necessità e secondo giustizia. E questo errare è folle due volte: perché identifica ciò che è sommamente diverso, e perché confonde ciò che è con il nulla, e quindi cerca di operare l’impossibile: far essere ciò che non è e far non essere ciò che è; «Infatti, questo non potrà mai imporsi: che siano / le cose che non sono!».

 

Percorrendo la prima via, quella che «è», la Dea insegna cosa si debba dire e pensare dell’Essere:

[…] è ingenerato e imperituro,

infatti è un intero nel suo insieme, immobile e senza fine.

Né una volta era, né sarà, perché è ora insieme tutto quanto,

uno, continuo. Quale origine, infatti, cercherai di esso?

Come e da dove sarebbe cresciuto? Dal non-essere non ti concedo

né di dirlo né di pensarlo, perché non è possibile né dire né pensare

che non è. [Parmenide, fr. 8, 3-9.]

L’Essere è simile ad una “ben rotonda sfera”, senza incrinature, né fessure, né alterazioni o mutamenti. È da sempre e per sempre ciò che è, poiché è identico a sé e non è possibile che sia altro da ciò che è.

Ma immobile, nei limiti dei grandi legami

è senza un principio e senza una fine, poiché nascita e morte 

sono state cacciate lontane e le respinse una vera certezza.

E rimanendo identico nell’identico, in sé medesimo giace, 

e in questo modo rimane là saldo. Infatti Necessità inflessibile

lo tiene nei legami del limite, che lo rinserra tutt’intorno,

poiché è stabilito che l’essere non sia senza compimento:

infatti non manca di nulla, se, invece, lo fosse, mancherebbe di tutto.

[Parmenide, fr. 8, 26-33]

Nell’Essere non esistono nascita e morte, poiché la certezza che nasce dalla Verità mostra l’impossibilità del loro accadere. Se infatti esistessero nascita e morte, intese come passaggio dal non-essere all’essere e viceversa, allora si dovrebbe dire che esistono momenti in cui l’Essere (che è) non è ancora o non è più. Ma questa è pura follia, perché se all’Essere appartiene l’essere come suo senso, allora non è possibile che ad esso l’essere possa non appartenere più. La Necessità inflessibile di cui si parla è da intendersi come una potenza illimitata ed immodificabile, poiché ad essa si oppone l’impossibile, l’assurdo, il contraddittorio. Detto in altre parole, la Necessità è tale perché se si desse un’altra possibilità (la violazione dell’affermazione “l’Essere è”), quest’ultima si identificherebbe con la possibilità che si dia l’impossibile.

Il dato dell’esperienza, il mondo che ogni giorno scorre dinanzi ai nostri occhi, grida a gran voce: vi sono cose che prima non sono, sono, e poi non sono più. Tutta la nostra vita è l’esperienza del divenire costante ed inarrestabile di ciò che non permane ma passa e si dilegua. Come conciliare questa evidenza con la Verità che la Dea insegna a Parmenide, senza dover dire che tutto ciò di cui facciamo esperienza è pura illusione, follia, errore e inganno dei sensi? Come è possibile “salvare i fenomeni”? Rimane però la certezza che tutto ciò che è, non può non essere. 

Prendiamo commiato, per ora, da Parmenide, con le sue parole:

E poiché tutte le cose sono state denominate luce e notte,

e le cose che corrispondono alla loro forza sono attribuite a queste cose o a quelle,

tutto è pieno ugualmente di luce e di notte oscura,

uguali ambedue, perché con nessuna delle due c’è il nulla. 

[Parmenide, fr. 9]

Tutte  le citazione del testo sono tratte dal volume I Presocratici, Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti nella raccolta di Hermann Diels e Walther Kranz, Giovanni Reale (a cura di), Bompiani/RCS libri, Milano 2012. In particolare: Parmenide, pp. 450-503.