Un mondo in perenne rincorsa dell’enorme volume di dati che produce; e per rincorrere dati c’è bisogno di strumenti di calcolo veloci e un gran numero di scienziati, più che di pochi cervelli geniali.
Qualche anno fa, durante un incontro pubblico in una libreria nel centro di Trieste, chiesi allo scrittore Claudio Magris se convenisse con me che, nel corso della storia, la cultura sia andata (e stia tutt’ora andando) via via appiattendosi, cosicché tutti ne possiedano almeno un pezzetto; allo stesso tempo, però, sembra che si siano estinti i grandi pensatori, un tempo detentori di un’immensa conoscenza. Egli convenne, ma aggiunse che credeva di più in una società fatta di cento uomini mediamente istruiti e in grado di giudicare criticamente il mondo, piuttosto che novantanove analfabeti e un Goethe solitario.
Sicuramente questo tipo di società è quella che sempre più sta andando formandosi attorno a noi. Se si confronta l’Italia di oggi con quella, per esempio, ritratta nel documentario di Pasolini Comizi d’amore (1963), ci si accorge che le tonalità del Bel paese si sono attenuate; non esistono più i contadini legittimamente ignoranti che faticano ad esprimersi, ma allo stesso tempo si sente la mancanza di personaggi come Ungaretti, Moravia o Pasolini stesso. Più ci si volge al passato, più il divario si allarga: possiamo immaginare, oggi, un personaggio come Leopardi – singolarità ottocentesca apparsa in una società che contava circa il settanta percento di analfabeti? [1]
Anche nel campo delle scienze, la figura dello scienziato nel corso della storia non smentisce l’andamento finora descritto. Se un tempo si trattava di un pensatore a trecentosessanta gradi – tanto che fino all’ottocento non si distingueva nemmeno tra filosofo e scienziato – oggi fare scienza è nella maggior parte dei casi un lavoro come un altro, in cui i ritmi della ricerca e le scadenze da rispettare fanno dello scienziato medio un impiegato ultra-specializzato, pressoché ignaro persino di ciò che si sta cercando di scoprire nel laboratorio accanto al suo.
Eppure, discutendo di questa tendenza con diversi fisici, mi pare di riscontrare una generale concordanza con la posizione di Claudio Magris anche in campo scientifico. Nel mondo della fisica prevale la scuola di pensiero secondo cui cento scienziati ‘bravini’ danno un contributo maggiore alla società rispetto a quanto possa fare un solo scienziato geniale. Di più: la figura un po’ romantica e stereotipata dello scienziato solitario e geniale, chiuso nel suo ufficio a scrivere equazioni rivoluzionarie, è quasi stigmatizzata. Questo perché un personaggio del genere, per quanto di grande valore intellettuale, non è in grado di ‘fare scuola’, ovvero di costruire attorno a sé una rete di eventi, conferenze, concorsi vinti, borse di studio assegnate, studenti in cerca di tesi, tirocinanti e stagisti – tutte cose che mantengono in buono stato di salute un gruppo di ricerca e che quindi, più in generale, fanno progredire la scienza nella società contemporanea. Siamo molto lontani dal modello di Lev Landau – grande fisico sovietico, che aveva fondato una scuola di fisica teorica il cui esame di ammissione, chiamato minimo teorico, prevedeva la conoscenza dell’analisi vettoriale, dell’algebra tensoriale e più in generale di tutto ciò che Landau conosceva [2]; un esame tale che, per intenderci, solo quarantatré fisici in trent’anni riuscirono a superarlo.
Questa ‘regressione alla media’ è in atto, con buona pace di quel gruppo di sognatori un po’ reazionari che vedono in questa tendenza la frammentazione del sapere, il tramonto della figura più alta dell’intellettuale e quindi una forma di decadenza più che di progresso. Chi appartiene a questa schiera di elitisti della cultura si scontra con un mondo contemporaneo in cui in pochi anni si produce un ammontare di dati pari a quanto fatto nell’intera storia umana fino a quel momento [3], in cui tutti i big dell’high tech raccolgono e analizzano l’enorme quantitativo di informazioni che riguardano i nostri movimenti sul web, in cui la figura del ‘data scientist‘ (ovvero colui che processa grandi quantità di dati) è sempre più richiesta, in cui si studiano nuovi materiali da usare come memorie via via più piccole e capienti (è di questi giorni la notizia di un dischetto di vetro da 500000 Gigabyte [4]), in cui Google sostiene che il proprio computer quantistico sia stato in grado di compiere in qualche minuto un calcolo che a un supercomputer classico avrebbe impiegato diecimila anni [5]. Un mondo, in definitiva, in perenne rincorsa dell’enorme volume di dati che produce; e per rincorrere dati c’è bisogno di strumenti di calcolo veloci e un gran numero di scienziati, più che di pochi cervelli geniali.
Ecco allora che si affaccia una nuova frontiera della scienza per rispondere a questa esigenza: la cosiddetta citizen science, in cui il cittadino si fa compartecipe della ricerca scientifica. Immaginiamo per esempio che una parte consistente di cittadini europei fornisca attivamente i dati circa la quantità di stelle visibili dalla propria abitazione, questo potrebbe costituire un dato utile a scienziati che desiderassero studiare l’inquinamento nelle varie parti del continente e che sarebbe assai difficile da procurarsi da soli: ecco uno dei tanti esempi di citizen science. Un altro è fornito dalla università di Stanford, che col progetto Folding@home [6] utilizza i computer di più di centomila volontari, sfruttando la loro potenza di calcolo inutilizzata per processare dati relativi alla dinamica di molecole in vari settori, tra cui la farmaceutica (attualmente si studiano anche cure e terapie per il Covid-19). In questo caso il cittadino mette volontariamente a disposizione il proprio computer rendendosi utile alla scienza in modo passivo.
Ma esistono casi anche più sottili ed astuti. Il progetto Discovery [7] ha integrato in un videogioco online (EVE Online) degli esercizi di riconoscimento di immagini, al fine di caratterizzare la struttura cellulare in milioni di immagini prodotte da un microscopio a fluorescenza. In questo modo si è in grado di scavalcare quella naturale barriera dovuta alla buona volontà del cittadino che offre parte del suo tempo o dei suoi mezzi alla scienza per pura generosità, e si instaura invece un vero e proprio rapporto di do ut des, per cui il gioco serve sia al giocatore che alla scienza. In pratica l’utente, divertendosi, sta svolgendo il compito che sarebbe altrimenti destinato a uno scienziato o a un programma di riconoscimento automatico. Se si moltiplica il processo per il numero totale di utenti (qualche centinaia di migliaia), si possono ottenere risultati significativi. Inoltre è interessante osservare che i risultati dei giocatori sono stati paragonabili e, per alcuni aspetti specifici, anche superiori a quelli di strumenti utilizzati normalmente per il riconoscimento automatico di immagini di cellule [8]. Se quindi un numeroso gruppo di persone del tutto neofite di struttura cellulare, solo grazie alla statistica, è in grado di classificare le cellule con risultati paragonabili ai migliori strumenti specifici che abbiamo a disposizione, viene naturale chiedersi: per quanti e per quali altri problemi il parere, mediato statisticamente, di centinaia di migliaia di persone scelte a caso è più autorevole del parere di un unico esperto? E a quali conseguenze sul ruolo della figura dell’esperto, del colto, dell’intellettuale condurrebbe la consapevolezza che la statistica può batterlo senza saperne nulla dell’argomento a cui egli ha consacrato la sua vita?
Dal minimo teorico di Lev Landau fino alla scienza integrata al gioco online, la cultura sembra sempre più democratizzarsi spingendo chi sta in basso verso l’alto e costringendo chi sta in alto a scendere verso il basso. In un mondo così, in cui ognuno diventa ingranaggio volto all’utile, ma nessuno è più utile dell’altro, trovare il tempo per acculturarsi potrebbe sembrare immorale, e leggere La Livella un atto eversivo.
[2] Leonard Susskind & George Hrabovsky, The Theoretical Minimum, Basic Books (2013)