Penso che anche voi, come me, a questo punto avrete inteso chi sia celato dietro la figura di Aslan, che quando appare per la prima volta ai confini del suo regno, oltre il mare d’Oriente, non è leone ma agnello.
Vi sono dei luoghi che non esistono nella realtà – almeno non come il Sahara o l’Oceano Indiano – ma che appartengono di diritto alla nostra personale geografia, alle carte geografiche della nostra individualità. Questi luoghi ci sono cari e familiari, come la nostra camera, il giardino di casa o la sala da pranzo dei nostri nonni. Di questo genere di luoghi ve ne possono essere molti, ad esempio il Bosco dei Cento Acri, il Paese delle Meraviglie, la Terra di Mezzo o la Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts. Uno di quelli che mi sono più cari è popolato da creature strane e meravigliose ‒ animali parlanti, fauni, centauri, divinità dei boschi e dei fiumi ‒ e si estende dalla Lanterna perduta a Ovest, fino ai confini più orientali delle Isole solitarie. Come avrete già capito, sto parlando del regno di Narnia: l’unica terra al mondo che confina con… beh, un armadio!
Ero un bambino quando lessi per la prima volta questi sette romanzi e devo ammettere che ciò che ne guadagnai fu solo il piacere che danno le grandi avventure, gli eroi vittoriosi e i malvagi puniti, le descrizioni di luoghi meravigliosi, e i buffi personaggi difficili da dimenticare. Ho scritto ‘solo’, ma non si tratta affatto di cose di poco conto. A quei tempi Tumnus il fauno, il centauro Tempestoso, il gigante Fracassone, il nano Briscola, gli Inettopodi e quell’inguaribile pessimista del paludrone Pozzanghera, mi erano cari quanto gli amici che incontravo a scuola, o i cugini che frequentavano la mia casa. Ora, ‘diventato grande’ e compiuti serissimi studi all’università, posso cogliere tra le righe legami ben più profondi e più importanti insegnamenti; posso cogliere tutte o quasi quelle gemme preziose che Clive S. Lewis ha intrecciato alla trama dei suoi romanzi. Ma per la verità – a voi posso confessarlo – ancora oggi non mi è passata la grande voglia di visitare i boschi di Narnia, di soggiornare con i quattro sovrani a Car Paravel, di pescare con Pozzanghera nella landa delle paludi, di viaggiare sul veliero dell’Alba con Caspian X verso le Isole Solitarie e approdare, in fine, al mare di ninfee bianche, presso i confini del mondo, per varcare con il prode topo Ripicì le soglie del regno di Aslan.
Aslan: un nome indimenticabile per chiunque conosca la terra di Narnia. Si tratta di un leone, un enorme leone magico, figlio dell’Imperatore d’Oltremare. All’inizio del primo romanzo assistiamo, assieme a Digory e Polly, alla creazione di Narnia: il grande leone canta il mondo, ed ogni cosa emerge dall’oscurità infinita. Ma non si limita a creare il mondo: è sempre lui che sceglie alcuni animali e dona loro la parola, che incorona il vetturino Frank e sua moglie Helen primi sovrani di Narnia, e invia Digory nel Giardino segreto, a prendere il frutto che, piantato e divenuto albero, terrà lontana per secoli la Strega Bianca – ultima superstite del malvagio mondo di Charn, sfuggita alla sua distruzione a causa di Digory, che la trasporta involontariamente prima a Londra e poi a Narnia. Ogni volta che Aslan viene nominato, il suo nome rinfranca i cuori dei buoni e dei giusti quanto atterrisce i malvagi. E lui che trasporta i figli di Adamo ed Eva – noi umani – a Narnia quando essa è in pericolo, e veglia su di loro. Vi è un fatto singolare che merita di essere raccontato. I quattro grandi re che instaurano l’epoca d’oro del regno sono i quattro fratelli Pevensie: Peter, Susan, Edmund e Lucy. Al loro primo arrivo su quel mondo, Narnia è da cent’anni nella morsa dell’inverno (sempre inverno e mai Natale!) e governata dalla Strega bianca; purtroppo Edmund (per ingenuità) si allea con quest’ultima tradendo i suoi fratelli. Quando ritorna in sé e chiede perdono, la Strega fa valere un suo antico diritto: tutti i traditori devono esserle consegnati perché lei li possa uccidere. A questo punto Aslan, per salvare il giovane Edmund, si offre al suo posto e subisce il tremendo supplizio sulla Tavola di Pietra. Il sacrificio viene portato a termine – con il suo atroce calvario – ma ciò che la Strega non può sapere è che prima dell’inizio dei tempi una magia ancora più antica di quella che le dà potere sui traditori è stata emanata dall’Imperatore d’Oriente: se al posto del traditore verrà sacrificata una vittima volontaria ed innocente, la Tavola sarà spezzata e la vittima risorgerà dalla morte. Penso che anche voi, come me, a questo punto avrete inteso chi sia celato dietro la figura di Aslan, che quando appare per la prima volta ai confini del suo regno, oltre il mare d’Oriente, non è leone ma agnello.
Non vorrei che pensaste che a Narnia tutto ciò che accade sia sempre buono o felice. D’altronde ho già accennato a questo fatto: i figli di Adamo ed Eva vengono convocati solo quando tutto sembra volgere al peggio, e loro compito è porre rimedio al male che il povero Digory ha portato con sé in quel mondo appena nato. Fra una visita è l’altra possono essere trascorsi qualche anno come molti secoli – l’equivalenza del tempo tra i due mondi rimane un mistero – e molti degli amici conosciuti sono morti, o periscono durante l’impresa. Tanti sono i sacrifici, le sofferenze e i momenti di disperazione. In particolare l’ultimo libro era quello che più mi risultava incomprensibile, quand’ero bambino. È un romanzo più breve degli altri, meno fantastico ed avventuroso, e la situazione precipita fino al punto di non ritorno. Vi è un fatto in particolare, non più tragico di molti altri, ma che da bambino mi riempiva di orrore e sconforto:
Per me che ero solito vivere, a quel tempo, in stretto contatto con boschi ed alberi, tutto questo era semplicemente straziante.
Però ‒ e per fortuna ‒ esiste una seconda metà in questo libro che racconta che cosa accade dopo la distruzione di Narnia. Padre Tempo svegliato dal ruggito di Aslan ordina alle stelle di cadere dal cielo, sprofonda la terra sotto le acque del mare, e stritola in una mano il sole e la luna ormai morenti. Tutti gli abitanti giungono alla porta del regno di Aslan: i malvagi non entrano e scompaiono per sempre nell’oscurità; i giusti passano la soglia e si ritrovano nella vera Narnia. Il regno di Aslan è la realtà delle cose, il mondo vero del quale la Narnia in cui i nostri eroi hanno gioito e sofferto è solo l’ombra – come lo è pure il nostro. In esso vi è il cuore delle cose, e più ci si avvicina al cuore più tutto è vero, nitido, grande e lucente.
Potrebbe sembrare, a prima vista, che Le Cronache di Narnia possano essere apprezzate fino in fondo solo da chi abbia fede nella rivelazione cristiana, ossia a chi crede nella trinità di Dio, nell’incarnazione del suo figlio, nella sua morte e resurrezione, e nel giudizio universale ‒ quando vivi e morti saranno chiamati a rispondere delle loro azioni di fronte al Cristo pantocratore assiso in trono. Io non credo questo. Penso, anzi, che per penetrare al fondo di quest’opera e trarne nutrimento per l’anima sia sufficiente aver fede. Capitemi, non intendo necessariamente la fede cristiana, ma piuttosto una fede paradossale, di tale sottile natura da essere il fondo originario della fede stessa. Cristina Campo la cita come «una professione di incredulità nell’onnipotenza del visibile», ossia credere che ciò che si può percepire con i cinque sensi non è la totalità di ciò che esiste. Coloro che possiedono questa postura dell’anima saranno in grado di gioire per le statue riportate in vita al Castello di Jadis, tremeranno di paura al ruggito di Aslan che scuote la terra e piangeranno per la morte di re Caspian sul molo di Car Paravel; rideranno degli Inettopodi e della loro ingenuità, e le sofferenze e le gioie degli animali parlanti saranno le loro. Solo così potranno scoprire che, anche se non esistono concretamente, questi luoghi geografici dell’anima sono anch’essi reali, e che, in fondo, questi e la nostra Terra potrebbero non essere altro che il preludio alla Vera Storia della nostra esistenza.
[1] Clive S. Lewis, L’ultima Battaglia, in Le Cronahce di Narnia, Mondadori, Milano 2006, cap. 2 (L’imprudenza del re), pp. 1027/1028.
[2] Clive S. Lewis, L’ultima Battaglia, in Le Cronahce di Narnia, Mondadori, Milano 2006, cap. 2 (L’imprudenza del re), pp. 1027/1028.