Il fine vita

Peter Miozzo
Scienza

 Da quando ha coscienza di sé l’essere umano riflette sul tema della morte; il suo essere certa, incombente ed inevitabile comporta il doverla, prima o poi, affrontare in prima persona. Attonito e sgomento di fronte al suo destino, l’essere umano ha sempre aspirato alla possibilità di eluderlo per poter realizzare quel desiderio spasmodico di vita eterna. Questo tema è foriero di una tale fascinazione che, metaforicamente, si esprime anche nella celebre leggenda del ‘Graal’ e dei coraggiosi cavalieri che partono alla ricerca di questa  mistica  coppa  ‒ calice dell’Ultima Cena e contenitore del sangue di Gesù Cristo crocifisso ‒ che  simboleggia  un  inafferrabile  oggetto  del  desiderio capace di donare a chi ne è degno la vita eterna – fisicamente o spiritualmente.

Vi  sono ritrovamenti archeologici  che  inducono  a  credere  fermamente  che  già  antiche  civiltà abbiano praticato, spesso in relazione a concezioni mistico-religiose, una sorta di rianimazione cardio-polmonare, seppure in modo ingenuo e  senza  una reale conoscenza scientifica del reale funzionamento del sistema cardio-respiratorio.  Oggi  queste  tecniche  sono  state  ampiamente  esplorate,  studiate  e raffinate pur avendo sempre, se non le stesse metodologie e teorizzazioni, il medesimo scopo: strappare l’uomo mortale a ‘thanos’ – la morte.

Ci si trova oggi di fronte alla scomposizione del concetto di ‘morte’ in almeno quattro differenti determinazioni  che danno luogo ad una polisemanticità ambigua che sarà necessario affrontare e, per quanto possibile risolvere.

Ai nostri giorni sono sostanzialmente due i criteri con i quali si può dichiarare il decesso: quello cardiorespiratorio e quello cerebrale  o  neurologico; il  primo  è  principalmente utilizzato per stabilire in modo definito ed inequivocabile la morte del paziente (per  esempio  se  le  lesioni  sono  tali  da  rendere  impossibile  la rianimazione), mentre il secondo  riguarda di prassi i casi di pazienti in stato di coma irreversibile – con il quasi completo azzeramento delle funzioni neurali. 

Il tema può risultare a prima vista estremamente complesso e per questo ‒ in nome della semplicità e della chiarezza ‒ sia consentito cominciare nominando un recente articolo pubblicato lo scorso agosto su JAMA (una rivista di stampo squisitamente medico che gode di grandissima fama sul piano internazionale) nel quale eminenti esperti del campo si sono espressi con toni polemici circa la mancanza di conoscenza certa e i dubbi ancora irrisolti che permangono attorno ai fondamenti teorici di queste prassi mediche.  Gli  autori dell’articolo esprimono  la  consapevolezza  urgente di dover  formulare  un documento scientifico generalmente condiviso  che comprenda  tutte  le  dichiarazioni  relative  alla determinazione della ‘brain death’ (morte cerebrale), riesaminando tutti i database ed includendo articoli dal 1992 ad oggi, identificando con chiarezza i più utili e pertinenti.

     

Di particolare importanza teorica ed umana è un caso occorso alcuni anni fa e divenuto famoso a livello mediatico che servirà ora come  esempio  concreto  per  gettare  luce  sulla  complessità  e  sulle  contraddizioni  insite  in queste pratiche mediche. La vicenda di Alfie Evans ha inizio nel dicembre 2016; il piccolo Alfie a soli sette mesi dalla nascita viene ricoverato in terapia intensiva a  causa di una patologia  neurologica degenerativa non ancora conosciuta e, un anno dopo, l’equipe medica decreta la sospensione della ventilazione artificiale che lo tiene in vita perché non è scientificamente ipotizzabile alcuna possibilità di guarigione. I genitori non si arrendono e chiedono  il  trasferimento  presso  l’ospedale  pediatrico  Bambino  Gesù  di  Roma  per  tentare  nuove  cure sperimentali ma il giudice dell’Alta Corte inglese, così come la Corte Suprema Britannica, si esprimono a loro sfavore, avallando la decisione medica di interrompere tutti i supporti vitali del bimbo. Seppure il governo italiano decida di dare la cittadinanza al piccolo nella speranza che gli sia concesso il trasferimento, questo non accade. Nell’aprile 2018 viene spento  il supporto respiratorio di Alfie e i medici sono costretti a idratarlo nuovamente visto che contro ogni previsione le funzionalità respiratorie naturali non si arrestano. Nel medesimo giorno viene rifiutato anche da parte della Corte europea dei diritti umani il ricorso contro il divieto di trasferimento e il portavoce della Commissione Europea afferma che non vi è alcuna legge che possa essere invocata per portare Alfie in Italia;  il 28 aprile si constatò il decesso di Alfie Evans.

Questa vicenda ebbe anche altri risvolti di carattere giuridico, riportando l’attenzione mediatica su presunte pratiche di asporto di organi per trapianti da bambini dichiarati deceduti negli anni dal 1988 al 1995 proprio all’Alder Hey Hospital di Liverpool, dov’era ricoverato Alfie Evans.  Sarebbe superficiale non leggere in quest’ultima vicenda il possibile nesso tra la pratica medica della dichiarazione di morte cerebrale, i trapianti di organi, e il possibile asservimento di tale agire medico a fini tutt’altro che etici, ed a dubbi interessi. In questo senso la tensione concettuale che si mette in rilievo è profonda, e si costituisce sulla base di molteplici assunzioni teoriche nel campo sociale, etico, scientifico e giuridico – assunzioni che andrebbero rivedute e discusse con attenzione.

Storicamente, l’articolo scientifico che determina la definizione di ‘morte’ vincolata al paradigma cerebro-centrico è quello redatto dalla Commissione Harvard, istituita nel 1968 (teniamo a mente che la grande espansione della pratica del trapianto di organi sorse in concomitanza e, dal momento che questi due concetti convergono e si intrecciano tra loro, l’impatto del  primo  sul secondo  non  può  essere  assolutamente  sottovalutato )  e  che contava  al  suo  interno prevalentemente  medici  ma  anche  un  giurista,  uno  storico  e  un  teologo.  L’articolo  fu  intitolato  A Definition  of  Irreversible  Coma  e  aveva  la  pretesa  di    fissare  con  certezza  scientifica  un  nuovo  ed attendibile criterio di morte, definendola come “la perdita totale e irreversibile della capacità dell’organismo di mantenere autonomamente la propria unità funzionale”. Successivamente nel 1981, sempre negli Stati Uniti, fu pubblicato  lo  Uniform  Determination  of  Death  Act  (UDDA)  che  aveva  lo  scopo  di  uniformare  la definizione di  ‘morte’  e  di  fornire  risposte  adeguate  sotto  il  profilo  medico-biologico sebbene, tuttavia,  non fecero altro che ribadire l’idea che la morte cerebrale sia da identificarsi con la morte dell’intero encefalo (“whole brain death”) ‒ considerato  come  l’organo  critico  dell’integrazione  corporea  ‒ e  che  si  palesa  nella  non responsività e non ricettività psicologicamente intesa (incoscienza) nei confronti di un ambiente esterno. La cessazione  irreversibile  di  tutte  le  funzioni  cerebrali  determina  la perdita  irrimediabile  dell’integrazione delle varie componenti dell’organismo e dunque la morte  dell’individuo. 

Questo  documento  suscitò  non  poche  critiche  sia  da  parte  del  mondo  medico,  sia da  parte  di giuristi, bioeticisti e filosofi. A tal proposito è il caso ora di portare il discorso su di un piano più propriamente filosofico, nel tentativo di far emergere spunti di riflessione sulla dimensione etica e normativa di questo tema, ponendo sotto una lente d’ingrandimento l’effettiva correttezza teorica di queste pratiche mediche.

Innanzitutto,  si  può  affermare  che  vi  sia  una  coincidenza  tra  la  cessazione pressoché completa delle funzioni  cerebrali  diagnosticata  e  la ‘morte’ dell’individuo in quanto tale? Ovviamente i medici, a causa della natura essenzialmente pratica del loro lavoro, si vedono costretti a prendere decisioni che avranno conseguenze effettive e spesso  anche definitive rispetto alla vita – o alla morte – del loro paziente. Tuttavia l’interrogativo rimane: è lecito assumere la cosiddetta ‘morte cerebrale’ come ‘morte’ tout court anche se indubitabilmente il cuore batte ancora, i capelli e le unghie crescono, i tessuti si rigenerano e c’è  segno,  seppur  minimo,  di  attività  metabolica? In altre parole bisogna conciliare il fatto che l’individuo sia da considerarsi morto sebbene il suo organismo  continui in qualche modo a vivere.

In  Italia, il Comitato  Nazionale  per  la  Bioetica pur  avendo recepito  e  analizzato  le  critiche giuntegli, ritiene valido solo il criterio di ‘morte cerebrale totale’ – “intesa come danno cerebrale organico, irreparabile, sviluppatosi acutamente, che ha provocato uno stato di coma irreversibile” – con la motivazione che, nonostante si possa notare una residua attività elettrica e metabolica ancora in atto, ciò che conta è l’assenza di  integrazione e  in questo caso viene meno la caratterizzazione propria dell’individuo come sistema complessivo.  Ma,  eticamente parlando, stiamo seguendo la miglior strada possibile?

Ha fatto scalpore un caso accaduto all’inizio del 2019 e che certamente commuove per la sua tragica particolarità: una donna ha partorito un bambino nonostante si trovasse in coma da quattordici anni in una struttura ospedaliera protetta dopo essere  stata  abusata  da  un  infermiere.  Al  di    del  deprecabile  gesto,  viene spontaneo chiedersi  se  l’incoscienza  in  cui versava la donna da più di un decennio possa dirsi sufficiente per decretare la cessazione di un’esistenza  umana  che  manifesta  una  tale  e  complessa  integrazione  generale da essere capace  di  generare una nuova vita. Anche assumendo il cervello come ‘supremo organo integratore’, in questi casi dobbiamo chiederci se il concetto di ‘integrazione’ che oggi adottiamo sia poi così calzante quando spostiamo l’attenzione  sull’individuo  umano  inteso  come  singolo,  unico  e  irripetibile.  La  chiarificazione  di  piani  e livelli semantici e concettuali deve essere chiarita se non si vuole andare incontro a inconsistenze teoriche. Anche le neuroscienze stesse suggeriscono che i riflessi motori non possono stabilire la presenza o l’assenza di funzioni neurologiche integrative superiori e che il potenziale di recupero della consapevolezza cosciente attraverso neuro-genesi e neuro-plasticità non possa essere escluso in toto. Dati questi ‘insight’, sembra lecito affermare che la valutazione comportamentale legata alla non risposta sensoriale dell’individuo versante in coma non equivale necessariamente ad un’assenza di consapevolezza. Rimane da sottolineare che dalle revisioni compiute su centinaia di casi di constatazione di morte,  non  è  stato  possibile  accertare  che  tutte  le  funzioni  del  tronco  encefalico  fossero  completamente  e  definitivamente  assenti ma,  nondimeno,  in  tutti  questi  casi  è stata  dichiarata  la  ‘morte  cerebrale’ avallando la pratica di esproprio degli organi cosi come determinato dalla prassi vigente.

Afferma Aristotele che è proprio dell’uomo ben istruito il non insistere nella ricerca di una maggiore precisione nella conoscenza rispetto a quanto il soggetto stesso dell’indagine non ammetta. La realtà di certi tipologie di concetti – ai quali appartengono forse ‘vita’ e ‘morte’    può  essere  imprecisa  in    stessa,  o perlomeno potrebbe esserlo la conoscenza che da questi si ricava.  

Tuttavia assumere acriticamente come vero e corretto uno stato di cose che si riconosce allo stesso tempo come ‘impreciso’ rischia di essere pericoloso, soprattutto quando esso è alla base di pratiche concrete – come quella medica – che hanno conseguenze dirette e immodificabili sulla stessa vita o morte degli esseri umani.

Per quanto si possa ritenere che i criteri ad oggi adottati siano la miglior spiegazione possibile, il lettore  converrà  nel  ritrovare  una  certa  paradossalità  in  relazione ai concetti oggettivi che si utilizzano in campo biologico (‘vita’ e ‘morte’ sopra tutti).  

Ci si trova oggi di fronte alla scomposizione del concetto di ‘morte’ in almeno quattro differenti determinazioni ‒ morte  cardiaca, morte complessiva del cervello, morte del tronco encefalico e morte ontologica ‒  che danno luogo ad una polisemanticità ambigua che sarà necessario affrontare e, per quanto possibile, risolvere.