Nel momento in cui non ci sono più speranze e l’individuo deve affidarsi costantemente a dei supporti esterni per continuare ad esistere – esistere, ma non vivere – che senso ha costringerlo a soffrire ancora, se egli stesso ha espresso la volontà di andarsene?
Provare paura è normale. Del resto, è una sensazione istintiva, comune a tutto il genere umano. Indubbiamente esistono fobie più motivate di altre. Alcune poi, sono lievi, affrontabili con un po’ di forza di volontà e, magari, una confortante stretta di mano. Altre invece sono completamente invalidanti e lasciano il singolo in balìa del proprio terrore. Infine, esistono anche altre paure, più subdole e striscianti. Quelle che causano quel brivido lungo la schiena, quella sensazione sottile di disagio, quella stretta al cuore che lo ferma per un momento e poi lo fa battere sempre più veloce. Sicuramente appartiene a quest’ultima categoria la paura di morire. Ma morire come? Lentamente. Soffrendo. Deperendo minuto per minuto e secondo per secondo, assistendo impotenti al decadimento del proprio corpo e della propria mente. Avendo un posto in prima fila in quel crudele spettacolo nel quale si vede (e se si è davvero sfortunati, si comprende) cosa questo decadimento provochi in tutti coloro che ci stanno accanto. Ebbene, questo sì che è davvero terrificante.
Del cosiddetto fine vita se ne è parlato molto, in Italia. Del resto, dopo la raccolta di firme per la proposta di un referendum popolare sulla depenalizzazione dell’eutanasia e la recente autorizzazione, da parte dell’azienda sanitaria marchigiana, al suicidio assistito di un paziente tetraplegico da dieci anni, parrebbe più che normale che se ne discuta. Anche solo per distinguere le due pratiche, spesso confuse tra di loro. L’assunto di base è il medesimo: la presenza di una persona che vuole porre fine alla propria vita. Le differenze principali tra l’una e l’altra sono due. In primis, l’eutanasia non necessita la partecipazione attiva della persona che ne fa richiesta, mentre invece il suicidio assistito prevede che l’individuo assuma da sé un farmaco letale. La seconda differenza concerne principalmente il ruolo del personale sanitario coinvolto nella procedura: se infatti, nel caso dell’eutanasia, il medico ricopre un ruolo attivo, per il quale egli deve somministrare personalmente il farmaco letale al paziente, nel caso del suicidio assistito il personale sanitario svolge un ruolo di – appunto – assistenza, limitandosi a prescrivere il farmaco che il paziente assumerà per proprio conto.
Attualmente, l’eutanasia (attiva) è considerata dall’art. 579 del Codice penale come omicidio del consenziente e punita con la reclusione dai sei ai quindici anni. L’art. 580 tratta invece del crimine di “istigazione al suicidio” o aiuto al suicidio – il suicidio assistito, per l’appunto – e sancisce come pena, nel caso il suicidio avvenga, la reclusione da cinque a dodici anni e, nel caso in cui non avvenga, da uno a cinque. Se tecnicamente per l’eutanasia la situazione si sta avvicinando ad un possibile cambiamento – considerato che la proposta di referendum è andata a buon fine e quasi un milione di firme sono state depositate in Corte di Cassazione lo scorso 8 ottobre – per il suicidio assistito le cose sono già cambiate. Infatti, in seguito alla sentenza n. 242/2019 della Corte Costituzionale, relativa al famigerato procedimento penale a carico di Marco Cappato nel caso del dj Fabiano Antoniani, il suicidio assistito viene legittimato – e dunque, viene tutelata la persona che aiuta il malato a togliersi la vita – se sono presenti quattro condizioni: se il paziente è affetto da una patologia irreversibile, se è costretto a patire gravi sofferenze fisiche o psichiche, se ha piena capacità di prendere decisioni libere e consapevoli e se, infine, dipende per la sopravvivenza da trattamenti e cure esterne.
È in funzione a questa sentenza che il comitato etico dell’azienda sanitaria delle Marche ha dato il via libera alla richiesta di suicidio assistito di un paziente, tetraplegico da oltre dieci anni. Peccato che tale richiesta, sebbene accolta, stia incontrando una serie di complicazioni, principalmente legate al fatto che, in assenza di legislazione adeguata al caso, le modalità con cui avverrebbe il suicidio assistito non sono chiare e dipendono interamente dall’autorità sanitaria locale (che se continua ad arrancare in materia dovrà rimandare un’altra volta la decisione al tribunale di Ancona). La questione si sta dilungando a tal punto tra i tecnicismi che l’Associazione Luca Coscioni (la stessa che ha promosso il referendum sull’eutanasia) ha accusato la regione Marche di voler creare una trappola burocratica per impedire al malato di accedere ad un diritto che gli è stato – almeno su carta – già garantito. La regione, dal canto suo, addita la mancanza di una legge, e dunque di una prassi da tenere sul caso, come causa dei rallentamenti e dei rimbalzi tra ASL e Tribunale.
Benché forse un poco esagerato, il timore dell’Associazione Luca Coscioni è comprensibile. Da anni e anni ormai si cerca di smuovere la legge – e l’opinione pubblica – italiana riguardo il fine vita e solo ora si stanno avendo dei primi, incerti risultati. La radicata cattolicità della società e cultura italiane (intendendo non solo la sfera del credo religioso ma anche la tendenza conservatrice del tessuto sociale italiano) hanno indubbiamente avuto il loro peso nella strenua lentezza con la quale procede la battaglia dell’Associazione. Perché, di base, negare a una persona sofferente che si sta lentamente spegnendo la possibilità di andarsene con dignità, è una crudeltà vera e propria. Nel momento in cui non ci sono più speranze e l’individuo deve affidarsi costantemente a dei supporti esterni per continuare ad esistere – esistere, ma non vivere – che senso ha costringerlo a soffrire ancora, se egli stesso ha espresso la volontà di andarsene? Garantire legalmente alle persone la possibilità di porre fine alla loro vita se lo desiderano è una scelta etica o meglio, reitera l’etica della scelta. Infatti, se questa possibilità viene garantita non vuol certo dire che diventi obbligatoria. Si fa affidamento su di essa solo nel caso in cui lo si desideri. Coloro che non condividono tale possibilità possono semplicemente fare a meno di avvalersene nel caso in cui si trovino in una situazione simile (che è sostanzialmente lo stesso discorso che si fa nel caso dell’aborto). E se la principale obiezione all’eutanasia o al suicidio assistito si collega alla sfera prettamente religiosa, per cui l’uomo decide di arrogarsi un “potere” sulla vita e la morte che spetterebbe a Dio, un pensiero sorge spontaneo. Se, infatti, Dio è tanto misericordioso e incline al perdono quanto la fede cattolica lo dipinge, sicuramente capirà che alcune croci sono ben più dure e faticose da sopportare di altre e che in alcuni casi l’oblio diventa un desiderio legittimo che altri esseri umani non hanno diritto di negare.
[1] VIDAS, Cose da sapere sull’eutanasia. https://www.vidas.it/storie-e-news/cose-da-sapere-eutanasia/
[2] Associazione Luca Coscioni, Fine vita ed eutanasia. https://www.associazionelucacoscioni.it/cosa-facciamo/fine-vita-e-eutanasia/eutanasia
[3] Codice Penale. https://www.brocardi.it/codice-penale/libro-secondo/titolo-xii/capo-i/art580.html?utm_source=internal&utm_medium=link&utm_campaign=articolo&utm_content=nav_art_succ_dispositivo
[4] Suicidio assisitito. https://www.ilpost.it/2021/11/24/suicidio-assistito-tribunale-ancona/