È il braccio aperto della schiavona, disteso, mentre offre l’alzata colma di lupini, ad attirare lo sguardo dell’osservatore. Il suo gesto di offerta quasi oscura il tavolo alle sue spalle che, allungato in diagonale, permette allo Spirito di diffondersi per tutto il telero. Nell’Ultima cena che si può osservare in San Giorgio Maggiore, a Venezia, Tintoretto mette in scena non tanto la sua sapienza pittorica, quanto la sacralità popolana che la Riforma non era riuscita a convertire. La schiavona si fa minima tra i servitori – più prostrato di lei è solo il cagnolino ai piedi del tavolo! –, una sua mano prende dal cesto intrecciato e l’altra dà.
Ma Tintoretto non sarebbe il più grande pittore veneziano se si fosse accontentato di ritrarre nature morte con personaggi in trattoria; tutta la sua opera suggerisce un dialogo con il tempo antico, un andirivieni storico che trova approdo nell’attualità. La cesta non è solo un posto in cui poter curiosare, come fa il bellissimo gatto striato, è anche il contenitore che i discepoli di Gesù utilizzarono per raccogliere i pezzi avanzati, affinché nulla andasse perduto della moltiplicazione dei pani. Quella cesta aveva un nome al tempo di Tintoretto, e aveva anche un proprietario, eppure quella cesta è allo stesso tempo uno dei dodici canestri che contenevano i pezzi dei cinque pani d’orzo, che i cinquemila invitati avevano avanzato.
Alla base del miracolo c’è il segreto cristiano: dare è avere. Soltanto chi ha può dare e, come si nota nel dipinto, solo due persone compiono tale gesto d’amore, Gesù e la schiavona.
Questo dialogo con le origini dell’era cristiana si delucida con la lettura di Lc 22, 27:
«Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve».
È questa diagonale breve, ortogonale alla schiera degli apostoli, a indicare la corretta chiave di lettura della religiosità del Tintoretto: la fede del popolo minuto, superstiziosa e concreta. La stessa fede che supporta le due custodi dell’orto delle vedove, Vasilisa e Luker’ja, coprotagoniste del racconto di Čechov, Lo studente. A quanti lo accusavano di essere lamentoso, cupo e freddo, Čechov rispondeva:
«Pessimista, io? Sapete qual è il mio preferito, tra i racconti? Lo studente…»
Ma al di là della biografia e dei riferimenti letterari immediati, come Delitto e Castigo e l’impressionismo di Turgenev, ciò che rende indelebile la rivoluzione di Ivan Velikopol’skij, allievo dell’accademia ecclesiastica, è il suo passaggio dalla tragedia alla commedia, dalla fame e dal freddo alla sazietà e al calore.
Non è sufficiente il digiuno religioso del venerdì per sopportare le riflessioni sui massimi sistemi, in particolar modo quando la forma religiosa nasconde un’insofferenza verso la realtà, il pessimismo di cui tacciavano Čechov. Il venerdì santo è lungo, se alla fame si aggiunge la miseria e al freddo la tristezza, con la certezza che
«tutti questi orrori erano sempre esistiti, esistevano allora [al tempo di Rjurik, di Ivan il Terribile e di Pietro il Grande] e ci sarebbero stati sempre, e anche se fosse passato un altro migliaio di anni, non per questo la vita sarebbe diventata migliore».
È questa la tragedia, la notte oscura.
In Čechov, tuttavia, come in Tintoretto, la realtà non è mai un bozzetto che cattura un’istantanea della barbarie, bensì è sempre stazione di partenza e di arrivo della vera conoscenza, più saggia di quella del Re Salomone: la luce della buona novella! Čechov non poteva ripetere quanto già detto da Dostoevskij nei Karamazov, né tantomeno rimanere allievo di Tolstoj e della sua risistemazione dei quattro Vangeli, nonostante sentisse dentro di sé la stessa paura dei suoi illustri predecessori, e lo stesso folle amore. Perché solo chi è capace di amare come Čechov può scrivere bene come Čechov. Solo chi è capace di scrivere un libro come L’isola di Sachalin può dire di aver preso su di sé il compito di comprendere l’uomo senza giudicarlo.
Ivan, lo studente, è un moderno Pietro innamorato, che ha paura e che rinnega il proprio amore; è un giovane che segue da lontano la Luce e che piange amaramente. Ma vicino al fuoco, presso l’orto delle vedove, le due donne non condannano la sua disperazione, e lo lasciano riscaldare; cosicché tale gesto d’amore possa far rivivere il tempo antico, quando ancora la terra si rallegrava della Sua presenza. Ora, come già al tempo di Tintoretto e poi in quello di Čechov, rimane solo il racconto e l’ascolto. E quando uno studente di teologia incontra una donna disposta ad ascoltare e a singhiozzare, come l’alta e grassa Vasilisa, allora il dolore e la sofferenza si trasformano in gioia, perché
«se la vecchia si era messa a piangere, non era perché il suo racconto fosse stato commovente, ma perché Pietro le era affine, e perché lei con tutto il suo essere partecipava a ciò che era accaduto nell’animo di Pietro».
Ed è questa la commedia, la risposta čechoviana al pessimismo, il senso dello sforzo di leggere la storia, perché la storia non si ripete, bensì la storia continua ininterrottamente:
«il passato è legato al presente da una catena ininterrotta di avvenimenti che scaturiscono l’uno dall’altro. E gli pareva di aver scorto, poco prima, i due capi di quella catena: non appena aveva toccato uno dei due estremi, l’altro aveva vibrato».
E il passaggio dalla ciclicità alla continuazione ininterrotta è la distanza che separa il dolore dalla gioia, la tragedia dalla commedia: l’offerta dei lupini come moderna eucarestia, l’ascolto e la commozione come nuovo apostolato, in un continuo e ininterrotto gesto d’amore che estirpi la violenza alle sue radici.