Here lies One Whose name was writ in water

John Keats

Marco Montagnin
Letteratura

Piango per Adonais – egli è morto!

Oh, piangete per Adonais! benché le nostre lacrime

non sciolgano la brina che sì cara testa fascia!

E tu, Ora triste, scelta fra tutti gli anni il on

per questo nostro lutto, desta le tue oscure compagne,

e insegna loro il tuo dolore, di : con me

morì Adonais; finché non ardirà il Futuro

dimenticare il Passato, il suo destino e la sua fama

saranno un’eco e una luce per l’eternità![1]

All’alba del 23 febbraio 1821 John Keats spirò tra le braccia dell’amico dopo una lenta agonia durata una vita intera o, secondo la medicina sette ore; lui che aveva corteggiato la morte, che l’aveva quasi amata e certamente preannunciata la notte del 3 febbraio del 1820 (Sangue arterioso. Non mi posso sbagliare, questa goccia di sangue è la mia condanna a morte. Morirò.) e così a lungo bramata nonostante la lotta incessante combattuta con Amore, essa, la morte, prevalse alle parole I shall die easy, profezia mai più erronea.

La malattia a lungo incubata e successivamente mai diagnosticata, i continui salassi per eliminare il sangue infetto, l’obbligo di astenersi dalle attività della mente, la ferrea dieta a cui venne sottoposto dai dottori che lo portarono ai deliri per la fame, la compassione del suo amico-carceriere Caronte che rimase con lui fino alla fine, che seguì ogni ordine dei dottori, che lo sollevò ogni qualvolta Keats si sentì soffocare ed infine lo adagiò per l’ultima volta; amico che lo tradì impedendogli il suicidio mesi prima, ma acconsentì ad ogni richiesta in punto di morte. Infine l’amore mai abbandonato ma tranciato senza un vero addio, con una ciocca di capelli dell’amata e la sua (di lei) ultima lettera mai volutamente aperta che riposa per sempre ‒ insieme alla ciocca ed a un borsellino regalatogli dalla sorella ‒, sigillata, sopra al suo cuore sepolta con lui all’ombra della piramide di Caio Cestio.

È l’alba del 26 febbraio quando la cerimonia si conclude, prima ancora che sorga il sole il corpo deve essere sotto terra in quanto i morti non cattolici non possono essere sepolti alla luce del sole, e sulla tomba, oltre alla famosa scritta, è incisa una lira con quattro corde spezzate, il sigillo della gemma che l’amata gli aveva regalato anni prima diviene nella fredda pietra simbolo d’una grande vita troppo presto recisa. Così Morte e Amore si incontrano per l’ultima volta nel poeta, e per entrambi è per sempre.

Ascolto qui nel buio; e quante volte

ho quasi amato la morte benigna,

e nei miei versi l’ho chiamata dolce

perché volasse via col mio respiro;

mai come adesso m’è dolce morire,

finire entro la notte e non soffrire,

mentre intorno si sparge la tua anima,

in una tale estasi!

Tu canteresti ancora, e zolla ormai

non avrei orecchio per l’alto tuo requiem.[1]

Keats nacque a Londra nel 1795 da una famiglia popolana ma benestante. A causa del suo lignaggio venne definito poeta cockney, attributo che gli venne inflitto in vita e che si impose anche dopo la sua morte, quel culto del poeta plebeo con cui iniziò l’era della poesia volgare.

Nel 1804 morì il padre cadendo da cavallo, subito dopo la madre scomparve con la sorella infante e ricomparve, passati solo due mesi, con un nuovo marito.

Oh, se questa mia carne troppo dura

si sciogliesse, dal suo gelo, in rugiada!

Oh se l’eterno non avesse opposto

la sua legge al suicidio! O Dio! o Dio!

Come sembrano sterili e ammuffite

e piatte le abitudini di qui!

Che ribrezzo! È un giardino di gramigna

che va in seme, e vi regnano soltanto

cose fetide. A questo s’è arrivati!

È morto da due mesi, oh no, non tanti!

un re eccellente, un Iperione, – e l’altro,

a suo confronto, un satiro,

– sì tenero

con mia madre che in volto non voleva

la pungessero i vènti… Cielo e terra!

Debbo pensarci? Ma se lei pendeva

dal re come se il proprio desiderio

di sé s’alimentasse.. E ora… in un mese?

O no! fragilità, il tuo nome è femmina.

Un mese appena; prima che invecchiassero

le scarpette con cui seguì la salma

come una Niobe in lacrime; e costei

– oh Dio, una bestia priva di ragione

avrebbe pianto assai di più!

– sposata

a lui, fratello di mio padre e simile

a mio padre com’io a Ercole. Un mese!

Prima ancora che il sale delle sconce

sue lacrime lasciasse quei suoi occhi

gonfi, sposata e accorsa così svelta

e leggera al suo letto incestuoso!

Non è bene e non può dar bene. Ma ora

spezzati, cuore, e tu frenati, lingua![1]

Successivamente moriranno nel giro di pochi anni il nonno, lo zio, la madre (che nonostante il tradimento Keats accudì fino alla morte) e la nonna, lasciando così Keats, i due suoi fratelli e la sorella in custodia di un tutore che amministrò male l’eredità dei ragazzi portando il poeta a vivere nell’angoscia della miseria.

 Keats proseguì gli studi scegliendo medicina senza mai abbandonare la letteratura, passò l’esame di stato, l’unico dei suoi compagni a superarlo, potendo così praticare la professione di apothecary, professione che non praticò mai, roso dai dubbi su quale fosse la strada da percorrere. Fu l’incontro con Leigh Hunt e successivamente un suo articolo in cui affermava che esisteva una nuova scuola di poesia ‒ nella quale figuravano i nomi di Keats e P.B. Shelley ‒ che indussero il poeta a inseguire la poesia, catturarla e inciderla in una lingua ai più sconosciuta: la poesia si intrecciò con la musica e con gli studi medico-botanici rendendolo il poeta romantico più consapevole della natura.

La volontà di diventare poeta segnò la rottura con il tutore, il quale dirà, dopo la lettura del primo libro di poesie, che esso era difficile da capire e che quando lo si fosse capito si sarebbe scoperto che non valeva nulla.

Allo stesso modo la critica non fu mai clemente con il Keats in vita, e solo quando era già un morto che per puro caso camminava ancora tra i vivi, nel luglio del 1820, venne finalmente elogiato.

Fu forse da parte di Shelley il riconoscimento più importante: egli lo invitò più volte in Italia per curare il suo corpo e la sua mente, per insegnarli il greco e lo spagnolo, già conscio che Keats l’avrebbe superato; ma il poeta non accettò mai l’invito, probabilmente a causa del sentimento d’inferiorità di classe e la paura di abbandonare l’amata. Fu uno dei grandi mancati incontri poetici dell’Ottocento, se non il più grande, un incontro che avrebbe certamente elevato la poesia di entrambi.

Il primo di dicembre 1818 morì il fratello più amato dal poeta; colui che lo ammirava e lo capiva più di ogni altra persona l’aveva lasciato solo, morendo di una morte lenta, dolorosa, che sembrava una maledizione della sua famiglia. Così erano morti lo zio, la madre, la nonna, ed in futuro Keats e successivamente l’altro fratello: morirono tutti di quella consunzione che Shelley definirà una malattia affezionata a chi scrive versi. Solo nel 1882 venne scoperto il batterio e dato un nome alla malattia: tubercolosi.

Dall’immagine del fratello morente il poeta compose una delle sue poesie più belle. Suo fratello nella morte prende le fattezze, condivise successivamente dal poeta, del cavaliere solo e pallido ed infine probabilmente ricordato nel v.32, dove i due baci potrebbero  riferirsi ai ‘penny posati sugli occhi della morte’(in inglese With kisses four).

Il poema esprime l’ambivalenza dei sentimenti del poeta nei confronti dell’amata, così lui stesso le scrisse:« Il cuore di Amleto era come il mio colmo di strazio quando disse a Ofelia ‘Va’ in Convento, va’ va’!».

III

Vedo un giglio sulla tua fronte,

madida per angoscia e febbre,

e sulla tua guancia una rosa morente

troppo presto sfiorita.

IV

Incontrai nel bosco una dama,

assai leggiadra, progenie di fata;

lunga era la chioma, lieve il passo,

selvaggio l’occhio.

V

Le feci una ghirlanda per corona,

anche bracciali, e un profumato cinto;

mi guardò come m’amasse,

e mandò un dolce lamento.

VI

Sul mio destriero al passo la posi,

e in quel giorno altro non vidi,

ché, curvandosi, lei mi cantava

un canto di fata.

VII

Per me trovò dolci radici,

e miele selvatico, e gocce di manna,

e sicuro in una strana lingua disse

«Sinceramente t’amo».

VIII

Mi portò nella grotta fatata,

e pianse, e sospirò con gran duolo,

 

e i selvaggi, selvaggi occhi le chiusi,

con mille baci.

 

IX

Cullandomi mi addormentò,

e sognai – Ah! Sciagura!

Sognai l’ultimo dei miei sogni

sul fianco della gelida collina.

X

Vidi pallidi re, e principesse,

pallidi guerrieri, pallidi per morte;

gridavano «La belle dame sans merci

ti ha in sua balia!».

 

Vidi bocche avide nel buio -“I»99 oTI

spalancate nell’orrido grido,

mi svegliai e qui mi trovai,

sul fianco della gelida collina.

 

XII

Ecco perché qui dimoro,

e solo e pallido vo’ errando,

secco è il canneto del lago,

e nessun uccello canta.[2]

L’amore romantico, tragico, mai consumato ‒ nemmeno un bacio per la paura della malattia fu dato ‒, il fidanzamento segreto, l’approvazione dei genitori di lei mai concessa a causa delle condizioni economiche e di salute del poeta se non prima del viaggio in Italia con la promessa che quando sarebbe tornato, guarito, avrebbe potuto sposare la figlia; così il rapporto epistolare dischiuse un Keats che in modo diverso da gli altri due grandi poeti della sua generazione lo resero il simbolo del poeta romantico.

È forse con Ode on a Grecian Urn che il poeta raggiunge una delle tante vette della sua carriera, carriera carriera sulla quale lui stesso così si espresse: «Non ho mai avuto paura di fallire; comunque, preferirei fallire che non essere tra i grandi». Se nelle Odi il poeta seguiva uno schema metrico in cui faceva seguire una quartina shakespeariana (abab) ad una sestina petrarchesca (cdecde), in questa poesia assistiamo a due variazioni: le sestine della prima e della quinta stanza sono cdedce e quella della seconda cdeced.

L’uso di ciò che il poeta chiama Negative Capability nella prima e quarta strofa è naturale, ormai assimilato nella mente di Keats.

Parecchie cose d’un tratto si sono combinate insieme nella mia testa, e ho capito qual è la qualità che ci vuole per fare un Uomo di successo, in particolare in Letteratura – qualità che Shakespeare possedeva in massimo grado – intendo dire la Capacità Negativa – e cioè quando un uomo è capace di stare nell’incertezza, nel mistero, nel dubbio senza l’impazienza di correre dietro ai fatti e alla ragione. Coleridge, ad esempio, si sarebbe fatto sfuggire una bella similitudine isolata strappata ai Penetrali del Mistero perché era incapace di rimanere appagato da una mezza conoscenza. [Cit]

 

I sensi che prevalgono sono quelli della vista e dell’udito, quest’ultimo supportato sia dalla seconda strofa che dalla musicalità del testo in cui sono presenti moltissime figure di suono tra le quali assonanze e allitterazioni.

Ma sono gli ultimi due versi di questo componimento che lo renderanno immortale, in cui il poeta coglie la verità ed essa è greca: kalòs kài agathòs.

Foggia attica! Bordi ricamati

con uomini e ragazze lì nel marmo,

rami di bosco, erba calpestata;

ci prendi, silenziosa, oltre ragione

come l’eterno: fredda pastorale!

Quando il tempo ci avrà spazzato via,

in mezzo a nuove pene oltre la nostra,

sarai sempre l’amica che ci disse:

«Bellezza è verità, verità bellezza,

altro sulla terra non sapete e questo basta».

 

Oh, se questa mia carne troppo dura

si sciogliesse, dal suo gelo, in rugiada!

Oh se l’eterno non avesse opposto

la sua legge al suicidio! O Dio! o Dio!

Come sembrano sterili e ammuffite

e piatte le abitudini di qui!

Che ribrezzo! È un giardino di gramigna

che va in seme, e vi regnano soltanto

cose fetide. A questo s’è arrivati!

È morto da due mesi, oh no, non tanti!

un re eccellente, un Iperione, – e l’altro,

a suo confronto, un satiro,

– sì tenero

con mia madre che in volto non voleva

la pungessero i vènti… Cielo e terra!

 

Debbo pensarci? Ma se lei pendeva

dal re come se il proprio desiderio

di sé s’alimentasse.. E ora… in un mese?

O no! fragilità, il tuo nome è femmina.

Un mese appena; prima che invecchiassero

le scarpette con cui seguì la salma

come una Niobe in lacrime; e costei

– oh Dio, una bestia priva di ragione

avrebbe pianto assai di più!

– sposata

a lui, fratello di mio padre e simile

a mio padre com’io a Ercole. Un mese!

Prima ancora che il sale delle sconce

sue lacrime lasciasse quei suoi occhi

gonfi, sposata e accorsa così svelta

e leggera al suo letto incestuoso!

Non è bene e non può dar bene. Ma ora

spezzati, cuore, e tu frenati, lingua![3]

 

Fanny fu il nome femminile che accompagnò Keats per tutta la vita, dalla nascita alla morte: fu il nome della donna che lo partorì, il nome della sorella che il poeta cercò sempre di proteggere, quello dell’amata, il cui ricordo lo tenne più a lungo in vita, costringendolo a lottare, portandolo a soffrire più a lungo, ed infine il nome della madre dell’amata che nonostante non gli permise di sposare la figlia fu certamente molto condiscendente con il poeta visto gli usi e costumi dell’epoca.

Durante i suoi ultimi giorni di vita chiese all’amico di perlustrare il luogo in cui sarebbe stato sepolto e di descriverglielo. Il poeta fu soddisfatto, la piramide, l’erba, i pastori con le pecore, le violette a lui così care; lo stesso cimitero in cui il suo amico sarà sepolto più di mezzo secolo dopo al suo fianco, entrambi lasciati soli, lontani dalle altre tombe. Anche Shelley venne sepolto a Roma, a pochi passi da Keats: morì un anno dopo, annegato nel golfo dei poeti, morto d’una morte simile, senz’aria. Così finalmente si incontrarono i due Wunderkinder, in un tempo diverso, a noi estraneo, quello in cui non si può parlare, quello che impedisce la scrittura.

This grave contains all that was mortal, of a young English poet, who, on his death bed, in the bitterness of his heart, at the malicious power of his enemies, desired these words to be engraven on his tomb stone

“HERE LIES ONE WHOSE NAME WAS WRIT IN WATER.

[1] W.Shakespeare, Amleto, Mondadori, pp.31-33

[2] J.Keats, Opere, Mondadori, pp.665-669

[3] J.Keats, Opere, Mondadori, pp.689-693

[1] P.B.Shelley, Opere Poetiche, Mondadori, pp.917

[2] J.Keats, Opere, Mondadori, pp.697

[3] W.Shakespeare, Amleto, Mondadori, pp.31-33

[4] J.Keats, Opere, Mondadori, pp.665-669

[5] J.Keats, Opere, Mondadori, pp.689-693

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