Giovannino Guareschi

Il Mondo Piccolo

Gabriele Dessin
Letteratura


Perché è l’ampio, eterno respiro del fiume che pulisce l’aria. Del fiume placido e maestoso, sull’argine del quale, verso sera, passa rapida la Morte in bicicletta. 

     Io da giovane facevo il cronista in un giornale e andavo in giro tutto il giorno in bicicletta per trovare dei fatti da raccontare.

     Poi conobbi una ragazza, e allora passavo le giornate pensando a come sì sarebbe comportata quella ragazza se io fossi diventato imperatore del Messico o se fossi morto. E, alla sera, riempivo la mia pagina inventando i fatti di cronaca, e questi fatti piacevano parecchio alla gente perché erano molto più verosimili di quelli veri.

     Io, nel mio vocabolario, avrò sì e no duecento parole, e son le stesse che usavo per raccontare l’avventura del vecchio travolto da un ciclista o quella della massaia che, sbucciando le patate, ci rimetteva un polpastrello.

     Quindi niente letteratura o altra mercanzia del genere: in questo libro io sono quel cronista di giornale e mi limito a raccontare dei fatti di cronaca. Roba inventata e perciò tanto verosimile che mi è successo un sacco di volte di scrivere una storia e di vederla, dopo un paio di mesi, ripetersi nella realtà. E non c’è niente di straordinario, è semplice questione di ragionamento: uno considera il tempo, la stagione, la moda e il momento psicologico e conclude che, stando così le cose, in un ambiente x possono verificarsi questa e quest’altra vicenda. (…)

     L’ambiente è un pezzo della pianura padana: e qui bisogna precisare che, per me, il Po comincia a Piacenza.

     Il fatto che da Piacenza in su sia sempre lo stesso fiume, non significa niente: anche la Via Emilia, da Piacenza a Milano, è in fondo la stessa strada; però la Via Emilia è quella che va da Piacenza a Rimini.

     Non si può fare un paragone tra un fiume e una strada perché le strade appartengono alla storia e i fiumi alla geografia.

     E con questo?

     La storia non la fanno gli uomini: gli uomini subiscono la storia come subiscono la geografia. E la storia, del resto, è in funzione della geografia.

     Gli uomini cercano di correggere la geografia bucando le montagne e deviando i fiumi e, così facendo, si illudono di dare un corso diverso alla storia, ma non modificano un bel niente, perché, un bel giorno, tutto andrà a catafascio. E le acque ingoieranno i ponti, e romperanno le dighe, e riempiranno le miniere; crolleranno le case e i palazzi e le catapecchie, e l’erba crescerà sulle macerie e tutto ritornerà terra. E i superstiti dovranno lottare a colpi di sasso con le bestie, e ricomincerà la storia.

     La solita storia.

     Poi, dopo tremila anni, scopriranno, sepolto sotto quaranta metri di fango, un rubinetto dell’acqua potabile e un tornio della Breda di Sesto San Giovanni e diranno: «Guarda che roba!». E si daranno da fare per organizzare le stesse stupidaggini dei lontani antenati. Perché gli uomini sono delle disgraziate creature condannate al progresso, il quale progresso porta irrimediabilmente a sostituire il vecchio Padreterno con le nuovissime formule chimiche. E così, alla fine, il vecchio Padreterno si secca, sposta di un decimo di millimetro l’ultima falange del mignolo della mano sinistra e tutto il mondo va all’aria.

     Dunque il Po comincia a Piacenza, e fa benissimo perché è l’unico fiume rispettabile che esista in Italia: e i fiumi che si rispettano si sviluppano in pianura, perché l’acqua è roba fatta per rimanere orizzontale, e soltanto quando è perfettamente orizzontale l’acqua conserva tutta la sua naturale dignità. Le cascate del Niagara sono fenomeni da baraccone, come gli uomini che camminano sulle mani.

     Il Po comincia a Piacenza, e a Piacenza comincia anche il Mondo piccolo delle mie storie, il quale Mondo piccolo è situato in quella fetta di pianura che sta fra il Po e l’Appennino.

     «… Il cielo è spesso d’un bell’azzurro, come ovunque in Italia, salvo nella stagione men buona, in cui si levano fittissime nebbie. (…) Il suolo è la più parte gentile, arenoso e fresco, alquanto forte a monte e talora schiettamente argilloso. Una lussureggiante vegetazione ammanta il territorio, che non ha un palmo spoglio di verzura, la quale cerca stendere il suo dominio fin sopra i larghi renai del Po.

     «I campi di ondeggianti messi, listati per tutto da filari di viti sposate agli oppii, (…) coronati da prode di ben chiomati gelsi, mostrano la feracità del suolo (…). Frumento, grano turco, uve in copia, bachi da seta, canape, trifoglio, sono i principali prodotti; vi prova bene ogni generazione di piante, e assai vi allignavano un dì le roveri e ogni ragione di frutti: folte vincaie rendono irsute le coste della riviera, lungo la quale, in passato più che adesso, verdeggiavano larghi e ricchi boschi di pioppi, qua e là tramezzati da ontani e da salici, o resi vaghi dall’odorosa madreselva, che, abbracciando le piante, forma capannucce e guglie cosparse di colorite campanelline.

     «Vi ha di molti buoi, bestie suine e pollame, insidiato questo dal martore e dalla faina: il cacciatore vi scova non poche lepri, preda soventi volte delle volpi, e, a tempo, fendono l’aria quaglie, tortore, pernici dal pennaggio brizzolato, beccacce che bezzicano il terreno a mo’ di crivello, e altri volatili di passo; vedi sopraccapo grandi schiere di rapidi storni: stuoli d’anitre stendonsi d’inverno sul Po. Il biancheggiante gabbiano brilla sull’ali attento, indi piomba e ghermisce il pesce; fra i canneti s’asconde il variopinto piombino, la passera cannaiola, la gallinella acquatica e l’astuta fòlaga: sul fiume odi charlotti, scorgi aironi, pivieri, pavoncelli e altri uccelli ripuari, rapaci falchi e roteanti poane terror delle chiocce; notturni barbagianni e silenziosi fatappi: talora furono ammirati e presi volatili maggiori, cui su per il Po o giù dall’Alpi, recarono i venti da strani paesi.

     «In quella conca ti appinzano le zanzare… (“da fangosi – Stagni gli antichi lai cantan le rane”), ma nelle smaglianti notti d’estate l’incantevole usignolo accompagna del soavissimo suo canto la divina armonia dell’universo, lamentando forse che una simile non addolcisca i liberi cuori degli uomini.

     «Nel fiume pescoso guizzano barbi, tinche, lucci voraci, argentei carpi, squisiti persici dalle pinne rosse, lubriche anguille e grossi storioni, che, talor tormentati da piccole lamprede, risalgono il fiume, del peso qualche volta di centocinquanta e più chilogrammi ciascuno. (…)

     «Sulla spiaggia del fiume giacciono i resti della villa di Stagno, un dì molto distesa, or pressoché tutta inghiottita dalle onde: nel canto ove il Comune tocca Stirone vicino al Taro, sorge la villa di Fontanelle, aprica e sparta. Là dove la strada provinciale s’incrocicchia coll’argine del Po, sta il casale di Ragazzola: verso mattina, dove il suolo più si abbassa, è il piccolo villaggio della Fossa; e la romita villicciuola di Rigosa sta, umile e incantucciata, tra gàtteri, pioppi ed altre piante poco lontano dal luogo dove il rivo Rigosa mette in Taro. Fra queste ville vedi Roccabianca.»

     Quando rileggo questa pagina del notaio Francesco Luigi Campari, mi sembra di diventare un personaggio della favola che egli racconta, perché io son nato nella villa «aprica e sparta».

     Il piccolo mondo del Mondo piccolo non è qui però: non è in nessun posto fisso: il paese di Mondo piccolo è un puntino nero che si muove, assieme ai suoi Pepponi e ai suoi Smilzi, in su e in giù lungo il fiume per quella fettaccia di terra che sta tra il Po e l’Appennino: ma il clima è questo. Il paesaggio è questo: e, in un paese come questo, basta fermarsi sulla strada a guardare una casa colonica affogata in mezzo al granturco e alla canapa, e subito nasce una storia.

[…]

     Questa è la Bassa, terra dove c’è gente che non battezza i figli e bestemmia non per negare Dio, ma per far dispetto a Dio. E sarà lontana quaranta chilometri o meno dalla città, ma, nella piana frastagliata dagli argini, dove non si vede oltre una siepe o al di là della svolta, ogni chilometro vale per dieci. E la città è roba di un altro mondo.

[…]

     Io dico che questo è il miracolo della Bassa.

     Su uno scenario scrupolosamente veristico come quello dipinto dal notaio Francesco Luigi Campari (uomo di gran cuore e innamorato della Bassa, ma che non avrebbe concesso alla Bassa neppure una tortorella, se le tortorelle non avessero fatto parte della fauna locale), un cronista di giornale ficca dentro una storia e non si sa più se sia maggiormente vera la descrizione del notaio o la vicenda inventata dal cronista.  

     Questo è il mondo di Mondo piccolo: strade lunghe e diritte, case piccole pitturate di rosso, di giallo e di blu oltremare, sperdute in mezzo ai filari di viti. Nelle sere d’agosto si alza lentamente, dietro l’argine, una luna rossa ed enorme che pare roba di altri secoli. Uno è seduto su un mucchio di ghiaia, sulla riva del fosso, con la bicicletta appoggiata al palo del telegrafo. Si arrotola una sigaretta di trinciato. Tu passi, quello ti domanda uno zolfanello. Parlate. Tu gli dici che vai al “festival” a ballare e quello scuote la testa. Tu gli dici che ci sono delle belle ragazze e quello scuote ancora la testa.

[…]

     Uno adesso dice: fratello, perché mi racconti queste storie?

     Perché sì, rispondo io. Perché bisogna rendersi conto che, in quella fettaccia di terra tra il fiume e il monte, possono succedere cose che da altre parti non succedono. Cose che non stonano mai col paesaggio. E là tira un’aria speciale che va bene per i vivi e per i morti, e là hanno un’anima anche i cani. Allora si capisce meglio don Camillo, Peppone e tutta l’altra mercanzia. E non ci si stupisce che il Cristo parli e che uno possa spaccare la zucca a un altro, ma onestamente, però: cioè senza odio. E che due nemici si trovino, alla fine, d’accordo nelle cose essenziali.

     Perché è l’ampio, eterno respiro del fiume che pulisce l’aria. Del fiume placido e maestoso, sull’argine del quale, verso sera, passa rapida la Morte in bicicletta. O passi tu sull’argine di notte, e ti fermi, e ti metti a sedere e guardi dentro un piccolo cimitero che è lì, sotto l’argine. E se l’ombra di un morto viene a sedersi vicino a te, tu non ti spaventi e parli tranquillo con lei.

     Ecco l’aria che si respira in quella fettaccia di terra fuori mano: e si capisce facilmente cosa possa diventare laggiù la faccenda della politica.

     Adesso c’è il fatto che in queste storie parla spesso il Cristo Crocifisso. Perché i personaggi principali sono tre: il prete don Camillo, il comunista Peppone e il Cristo Crocifisso.

     Ebbene, qui occorre spiegarsi: se i preti si sentono offesi per via di don Camillo, padronissimi dì rompermi un candelotto in testa; se i comunisti si sentono offesi per via di Peppone, padronissimi di rompermi una stanga sulla schiena. Ma se qualcun altro si sente offeso per via dei discorsi del Cristo, niente da fare; perché chi parla nelle mie storie, non è il Cristo, ma il mio Cristo: cioè la voce della mia coscienza.

     Roba mia personale, affari interni miei.

     Quindi: ognuno per sé e Dio per tutti.

[1] Giovannino Guareschi, Tutto Don Camillo, Rizzoli, Milano 2018, 3 voll., vol. I, pp. 5-28 passim.

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