Frank Luntz

Da "Parole che parlano"

Marta Bernardi
Attualità

L’atto del parlare non è una conquista: è una resa. Nel momento in cui apriamo bocca, condividiamo il nostro pensiero con il mondo che, inevitabilmente, ne interpreta – e a volte ne cambia e distorce – il significato originale.

Non è ciò che dite, ma ciò che le persone sentono.

Potete avere il miglior messaggio del mondo, ma la persona che lo riceve lo interpreterà sempre attraverso il prisma delle proprie emozioni, preconcetti, pregiudizi e convinzioni pregresse. Non basta essere nel giusto, essere ragionevoli o addirittura brillanti. Il fattore chiave per una comunicazione di successo consiste nel mettersi nei panni dell’ascoltatore, in modo da sapere cosa sta pensando e provando nei più profondi recessi della sua mente e del suo animo. Il modo in cui quella persona recepisce cosa state dicendo è ancora più reale, almeno sul piano pratico, di come percepiate il messaggio voi stessi.

Quando qualcuno mi chiede di spiegare il concetto di “parole che parlano”, dico loro di leggere 1984 di George Orwell. Poi, dico loro di guardare il film. In particolare, li indirizzo al passaggio del romanzo che descrive la Stanza 101 o, come viene descritta da Orwell, il posto dove gli incubi personali di ciascuno diventano realtà. Se la vostra paura più grande sono i serpenti, aprirete la porta per trovarvi in una stanza piena di serpi. Se avete paura di annegare, la Stanza 101 si riempirà fino all’orlo d’acqua. Per me, questo è il concetto di fantasia più terrificante e raccapricciante mai messo su carta, semplicemente perché incoraggia ciascuno ad immaginare la propria Stanza 101. Le parole che parlano, che siano finzione o realtà, non solo spiegano ma spronano all’azione. Fanno in modo che si pensi e si agisca. Innescano emozioni tanto quanto comprensione. 

Tuttavia, la versione cinematografica di 1984 nega all’osservatore il più potente aspetto della Stanza 101, quello che le permette di funzionare così bene: l’immaginazione personale. Nel momento in cui vedete effettivamente la Stanza 101, la visione non è più vostra ma diventa quella di qualcun altro. Perdete l’immaginazione e perderete una componente essenziale delle parole che parlano.

Così come il significato di un’opera di finzione può trascendere le intenzioni dell’autore, ogni messaggio che viene immesso nel mondo è soggetto alle interpretazioni e alle emozioni delle persone che lo ricevono. Una volta che le parole lasciano le vostre labbra, non vi appartengono più. L’unico monopolio che abbiamo è quello sui nostri pensieri. L’atto del parlare non è una conquista: è una resa. Nel momento in cui apriamo bocca condividiamo con il mondo che, inevitabilmente, ne interpreta – e a volte ne cambia e distorce – il significato originale.

Dopotutto, a chi non è mai capitato di dire “ma non è quello che intendevo”?

Ho chiesto al brillante sceneggiatore hollywoodiano Aaron Sorkin, creatore di The West Wing e Sports Night e qualcuno con un orientamento politico profondamente diverso dal mio, di spiegare la differenza tra un linguaggio che convince ed uno che manipola. La sua risposta mi ha sbalordito:

“Non c’è differenza. Solo quando la manipolazione è ovvia, ecco che diventa cattiva manipolazione. Ciò che faccio è manipolatorio tanto quanto un illusionista che fa un trucco di magia. Se agito abbastanza a lungo questo fazzoletto di seta rosso nella mia mano destra, posso fare quello che voglio con la sinistra e tu non te ne accorgerai. Nel momento in cui scrivi narrativa, tutto è manipolazione. Sto deliberatamente disponendo la situazione in modo che tu rida a questo punto, pianga a quest’altro o sia nervoso a quest’altro ancora. Se puoi vedere come faccio a segare la signora in due allora non ti sto manipolando bene. Se non vedi come l’ho fatto, allora invece lo sto facendo in modo adeguato”

 

[1] Luntz F., 2008. Words That Work: It’s Not What You Say, It’s What People Hear, Introduction. Hyperion. 

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