Enrico Fermi
e l'era atomica

Michele Diego
Scienza

«Ciò che è meno certo, e che noi tutti speriamo ardentemente, è che l’uomo diventi presto sufficientemente adulto per fare buon uso dei poteri che acquisisce sulla natura».

 

«Il navigatore italiano è appena sbarcato nel nuovo mondo».
È con queste parole che il presidente del Comitato di ricerca sulla difesa nazionale statunitense veniva avvisato al telefono del funzionamento della cosiddetta “pila di Chicago”, ovvero del primo reattore nucleare al mondo. Il “navigatore” italiano è il fisico premio Nobel Enrico Fermi. “Il nuovo mondo” è l’era atomica in cui tuttora viviamo.
Ma quale viaggio ha portato l’umanità dallo studio delle componenti prime della materia fino alla produzione di energia nelle centrali nucleari e alla devastante potenza distruttrice della bomba atomica?
In questo articolo, cercheremo di districare uno dei fili conduttori principali di questo intricato cammino. E per farlo seguiremo alcune tappe fondamentali della storia scientifica di Enrico Fermi.
Prima, però, dobbiamo riprendere in mano la tavola periodica degli elementi. Innanzitutto: che cos’è un elemento? È una sostanza composta da atomi tutti uguali. Bene, che cos’è allora un atomo? L’insieme di un nucleo di particelle chiamate protoni e neutroni, attorno a cui orbitano altre particelle più piccole, gli elettroni. Che cosa distingue un atomo da un altro? Il numero di protoni. L’atomo di idrogeno, primo elemento della tavola periodica, ha un protone. L’elio, il secondo elemento, ha due protoni. Il litio, terzo elemento, ha tre protoni. E avanti così con il quarto elemento e i suoi quattro protoni, il quinto, il sesto, etc. Si faccia caso al fatto che la tavola periodica non ha ‘buchi’, non ha elementi mancanti. Dall’idrogeno col suo unico protone fino all’oganesso e i suoi centodiciotto protoni, non si salta alcun numero. Pensate un qualsiasi numero tra uno e centodiciotto: l’elemento che ha quel numero di protoni esiste ed ha un nome. Quando nei film cade dallo spazio un meteorite e qualcuno, analizzandolo, esclama «contiene un elemento che non esiste sulla Terra», mente spudoratamente.
Ciò detto, passiamo al ruolo dei neutroni. Essi servono a stabilizzare il nucleo atomico. In un certo senso aiutano a cementificare il nucleo. Senza di essi i protoni si respingerebbero elettricamente. Il che non dovrebbe stupirci troppo, in fondo tutti noi ricordiamo il vecchio adagio “le cariche di segno opposto si attraggono, le cariche di stesso segno si respingono” – e i protoni hanno tutti carica positiva.
Per noi la cosa fondamentale da tenere a mente è questa: un nucleo atomico, per essere stabile, ha bisogno di un giusto equilibrio tra protoni e neutroni. Se il numero di protoni e di neutroni è sbilanciato, l’atomo decade, spezzandosi in nuclei più piccoli ed emettendo radiazioni.

Ora partiamo per davvero, iniziando dall’Italia, a Roma precisamente, durante gli anni ’30. Un giovane Enrico Fermi, dopo essersi distinto per vari lavori di fisica teorica ancora oggi utilizzati quotidianamente da tutti i fisici, è a capo di un fecondo e dinamico gruppo di altrettanto giovani scienziati. Vengono chiamati “i ragazzi di via Panisperna”, dal nome della via in cui risiede l’istituto dell’università di Roma in cui lavorano, e rappresentano una pietra miliare nella storia della scienza del Bel Paese.
Nel 1934 “i ragazzi” iniziarono a lavorare sulla radioattività artificiale. Era già noto dagli studi di Irène Joliot-Curie (nientemeno che la figlia di Marie Curie) che bombardando certi atomi con altri nuclei atomici si poteva trasformare l’atomo bombardato in un elemento radioattivo. Fermi e il suo team bombardavano vari elementi con neutroni, al fine di indurre una radioattività artificiale. Ricordiamoci cosa abbiamo detto prima: se il numero di neutroni e protoni è sbilanciato, l’atomo è radioattivo. Quindi se si prende un elemento e si inizia a bombardarlo con neutroni, è possibile che l’eccesso di neutroni porti a uno sbilanciamento neutroni/protoni e quindi alla sua condizione di radioattività.
È questo ciò che faceva Fermi coi suoi colleghi: attivando una sorgente di neutroni di radon-berillio, avvicinava alla sorgente vari elementi e misurava se essi diventassero radioattivi. L’idea di Fermi, però, era che quanto più lenti fossero andati i neutroni, tanto più facilmente sarebbe avvenuta la loro “cattura” da parte dell’elemento che poi sarebbe diventato radioattivo. Quindi se fosse riuscito a rallentare i neutroni, avrebbe aumentato il livello di radioattività indotta nell’elemento che stava studiando.
E che sostanze usavano i ragazzi di via Panisperna per rallentare i neutroni? Piombo, ad esempio. Quindi tra l’emettitore di neutroni e l’elemento da “radio-attivare” inserivano uno strato di piombo, sperando che esso rallentasse i neutroni. Peccato che non funzionava. Anzi, gli esperimenti davano sempre risultati diversi. Addirittura i livelli di radioattività indotta nel materiale cambiavano se l’esperimento veniva ripetuto su un tavolo di legno o di marmo.
Una mattina, però, Fermi decide di tentare qualcosa di nuovo. Lui stesso dirà di non sapere esattamente cosa l’ha portato a quella decisione. Semplicemente si è detto «no, non voglio il piombo, voglio la paraffina». E mise la paraffina tra sorgente di neutroni e bersaglio. I contatori Geiger misurarono immediatamente livelli di radioattività estremamente più elevati. La paraffina aveva funzionato nel rallentare i neutroni e quindi indurre una radioattività più forte.
Ma perché il piombo non funziona mentre la paraffina sì? Perché, al contrario di quanto si potrebbe pensare, i pesanti atomi di piombo sono molto meno efficaci nel rallentare i neutroni rispetto agli atomi leggeri della paraffina. Per testare questa ipotesi, Fermi e i suoi ragazzi immersero persino la sorgente di neutroni e il bersaglio nella fontanella coi pesci del giardino dell’istituto. Volevano capire se anche l’acqua, coi suoi atomi leggeri, funzionava come la paraffina. Il risultato fu positivo.

Facciamo un salto temporale di quattro anni. Accademia delle scienze di Stoccolma, 10 dicembre 1938. Fermi, trentasettenne, riceve ufficialmente il premio Nobel. Lo riceve in frac, non nella uniforme fascista che sarebbe tenuto a portare. Stringe la mano al re di Svezia, non gli fa il saluto fascista. Ha già deciso che non sarebbe tornato nell’Italia del regime; sua moglie è ebrea e inoltre la ricerca in Italia sta sfiorendo, a differenza delle opportunità nascenti negli Stati Uniti. Così, finite le cerimonie e dopo un breve viaggio a Copenaghen, Fermi si imbarca insieme alla famiglia sul transatlantico verso gli Stati Uniti. Lì prenderà vita il secondo capitolo della sua carriera da scienziato. Da uno studio speculativo sulla natura ad uno estremamente applicativo. Lì sarà in grado di utilizzare i suoi neutroni lenti per condurre l’umanità verso l’era atomica.

Pochi anni più tardi, infatti, Fermi riuscì a realizzare “la pila di Chicago”, un nome eufemistico per indicare qualcosa di così grande importanza storica: essa non è altro che il primo reattore nucleare a catena auto-alimentata del mondo. Costruito a Chicago, sotto le tribune di uno stadio abbandonato dell’università e senza una schermatura da radiazioni. Per avere una immagine mentale della “pila”, possiamo immaginarci una specie di grande torre fatta di pellet di uranio, blocchi di grafite e barre di cadmio. Da fuori poteva sembrare una grande torre del gioco Jenga. Ed in effetti le barre di cadmio, che servivano ad assorbire i neutroni in eccesso, venivano inserite ed estratte a mano, proprio come i mattoncini del gioco. Questo perché una sovrabbondanza di neutroni avrebbe potuto causare un’accelerazione eccessiva nel processo di reazione con una conseguente produzione di energia fuori controllo.
L’idea dietro alla pila, infatti, è la seguente: a differenza di altri materiali, quando l’uranio viene bombardato dai neutroni, non solo diventa radioattivo e si spezza in due trasformandosi in altri atomi più leggeri e liberando una grande quantità di energia, ma emette pure altri neutroni. Quindi per ogni neutrone lanciato se ne producono diversi altri, capaci a loro volta di scontrarsi con altri atomi di uranio, spezzarli, farli produrre energia e altri neutroni, e così via. L’uranio, perciò, causa una reazione a catena che si alimenta autonomamente e che può diventare impossibile da fermare. È questo il meccanismo dietro alla centrale nucleare: innescare una reazione che, alimentandosi da sola, produce più energia di quanta non se ne spenda per attivare la reazione stessa. Nella pila di Chicago, in particolare, l’uranio serviva a generare l’energia e ad attivare il meccanismo di reazione a catena; i blocchi di grafite servivano a rallentare i neutroni per rendere più efficace il processo; e le barre di cadmio potevano essere inserite per assorbire i neutroni e quindi rallentare la reazione.

La pila di Chicago rappresentò il primo grande successo del cosiddetto “progetto Manhattan”, il piano governativo segreto di ricerca nucleare statunitense. Il controverso programma, che ha visto la collaborazione di un enorme numero di scienziati di livello straordinario, sia americani che europei espatriati e in lotta col nazifascismo che affliggeva il loro continente, è il responsabile della creazione delle bombe atomiche.
Tra la pila di Chicago e una bomba nucleare, infatti, l’unica differenza fondamentale è la rapidità con cui la reazione a catena si propaga. Per essere più precisi, ci sono diversi tipi di atomi di uranio a seconda del numero di neutroni che possiedono. L’uranio-238 possiede novantadue protoni e centoquarantasei neutroni (92+146=238). Esso rappresenta oltre il 99% dell’uranio in natura e non ha un ruolo di primo piano nella reazione a catena auto-alimentata dei reattori nucleari. È l’uranio-235 il vero protagonista, essendo esso in grado di sprigionare quei neutroni supplementari che poi andranno ad innescare la reazione a catena.
La differenza fondamentale tra centrale nucleare e bomba atomica, quindi, è puramente quantitativa: una centrale nucleare ha una percentuale di uranio-235 del 3-5%, in una bomba atomica la percentuale aumenta a circa il 90%, innescando una reazione a catena rapidissima e liberando tutta l’energia in un tempo molto ristretto, con le note conseguenze distruttive.

Fermi, il navigatore italiano sbarcato nel nuovo mondo, fu il principale artefice della pila di Chicago e fu definito l’architetto dell’era atomica. Negli anni successivi alla pila, supervisionò altri reattori in grado di instaurare il regime di auto-alimentazione della reazione nucleare a catena. Collaborò anche per realizzare la bomba nucleare. Assistette assieme ad altri scienziati di straordinario livello al test di detonazione della prima bomba nucleare nel deserto del New Mexico.
Anni dopo, Fermi come anche altri scienziati che avevano preso parte al progetto Manhattan, iniziò a maturare la preoccupazione per un mondo con armamenti nucleari e la loro capacità distruttiva. Ad oggi ci resta il suo monito, di scienziato geniale, eclettico e, allo stesso tempo, persona semplice che tuttavia è stata protagonista di una svolta cruciale nell’evoluzione scientifica dell’umanità che ancora oggi ci interroga sulle sue conseguenze:

«La storia della scienza e della tecnologia ci ha costantemente insegnato che i progressi scientifici nella comprensione di base hanno prima o poi portato ad applicazioni tecniche e industriali che hanno rivoluzionato il nostro modo di vivere. Mi sembra improbabile che questo sforzo per arrivare alla struttura della materia sia un’eccezione a questa regola. Ciò che è meno certo, e che noi tutti speriamo ardentemente, è che l’uomo diventi presto sufficientemente adulto per fare buon uso dei poteri che acquisisce sulla natura».

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