Emil M. Cioran

da "Al culmine della disperazione"

Thomas Masini
Filosofia

Al culmine della disperazione, solo la passione dell’assurdo può rischiarare di una luce demoniaca il caos.

 

LA PASSIONE DELL’ASSURDO

    « Non c’è nulla che giustifichi il fatto di vivere. Dopo essersi spinti al limite di se stessi si possono ancora invocare argomenti, cause, effetti, considerazioni morali, ecc.? Certamente no. Per vivere non restano allora che ragioni destituite di fondamento. Al culmine della disperazione, solo la passione dell’assurdo può rischiarare di una luce demoniaca il caos. Quando tutti gli ideali correnti – di ordine morale, estetico, religioso, sociale, ecc. ‒ non sanno più imprimere alla vita una direzione né trovarvi una finalità, come salvarla ancora dal nulla? Vi si può riuscire solo aggrappandosi all’assurdo, all’inutilità assoluta, a qualcosa, cioè, che non ha alcuna consistenza, ma la cui finzione può creare un’illusione di vita. » 

    «Vivo perché le montagne non sanno ridere né i vermi cantare. La passione dell’assurdo non può nascere se non in un uomo in cui tutto è stato liquidato, ma che potrebbe subire spaventevoli trasfigurazioni. A chi ha perduto tutto resta solo questa passione. C’è qualcosa, nell’esistenza, ancora capace di emozionarlo o di sedurlo? Certuni diranno: il sacrificio in nome dell’umanità, del bene pubblico, il culto del bello, ecc. Io amo solo gli uomini che l’hanno fatta finita ‒ fosse pure temporaneamente ‒ con queste cose. Essi sono gli unici ad aver vissuto in modo assoluto, gli unici ad avere il diritto di parlare della vita. Si può ritornare all’amore o alla serenità; ma vi si ritorna per eroismo, non per incoscienza. Un’esistenza che non nasconda una grande follia è priva di valore. In che cosa infatti si distinguerebbe dall’esistenza di una pietra, di un pezzo di legno o di una putrilagine? Sono sicuro, d’altra parte, che bisogna celare una grande follia per volere diventare pietra, pezzo di legno o putrilagine. Solo dopo aver assaporato tutte le venefiche delizie dell’assurdo si è completamente purificati, perché soltanto allora si è portato l’annientamento all’ultima espressione. E non è assurda ogni espressione ultima?

*

      Vi sono uomini a cui è dato assaporare soltanto il veleno delle cose, per i quali ogni sorpresa è dolorosa, e ogni esperienza una nuova occasione di tortura. Questa sofferenza, si dirà, ha ragioni soggettive, e deriva da una costituzione particolare: ma esiste un criterio oggettivo per valutare la sofferenza? Chi potrebbe stabilire che il mio vicino soffre più di me, o che il Cristo ha sofferto più di chiunque altro? Non si può valutare oggettivamente la sofferenza, giacché non si misura in base a una reazione esterna o a un preciso disturbo dell’organismo, ma secondo il modo in cui la coscienza la sente e la riflette. Ora, da questo punto di vista, qualsiasi gerarchizzazione è impossibile. Ciascuno resta con la sua sofferenza, che ritiene assoluta e sconfinata. Se anche pensassimo a quanto il mondo ha sofferto finora, alle agonie più terribili e alle torture più raffinate, alle morti più cruente e agli abbandoni più dolorosi, a tutti gli appestati, agli arsi vivi o alle vittime della fame, la nostra sofferenza ne risulterebbe alleviata? Nessuno potrebbe trovare consolazione, durante l’agonia, nel pensiero che tutti sono mortali; così come, soffrendo, non si potrebbe trovare conforto nella sofferenza – passata o presente – degli altri. In questo mondo, costituzionalmente insufficiente e frammentario, l’individuo tende a vivere in modo totale, desideroso di fare della sua esistenza un assoluto. Ciascuno vive quindi come se fosse il centro dell’universo o della storia. Come potrebbe dunque la sofferenza non essere un assoluto? Cercare di comprendere la sofferenza altrui non allevia quindi la propria. In casi del genere i confronti non hanno alcun senso, giacché la sofferenza è uno stato di solitudine interiore, che niente dall’esterno può temperare. Poter soffrire soli è un grande vantaggio. Che cosa succederebbe se il volto umano esprimesse fedelmente tutta la sofferenza di dentro, se l’espressione traducesse tutto il tormento interiore? Riusciremmo ancora a conversare? Non dovremmo parlare nascondendoci il volto con le mani? La vita diventerebbe decisamente impossibile se i nostri tratti palesassero l’intensità dei nostri sentimenti.

     Nessuno avrebbe più il coraggio di guardarsi allo specchio, poiché un’immagine insieme grottesca e tragica mescolerebbe ai contorni della fisionomia macchie di sangue, piaghe sempre aperte e rivoli di lacrime irrefrenabili. Proverei una voluttà piena di terrore nel veder esplodere, nell’armonia comoda e superficiale di ogni giorno, un vulcano di sangue che vomitasse fiamme brucianti come la disperazione, nel guardare tutte le ferite del nostro essere aprirsi irrimediabilmente per far di noi una sola sanguinante eruzione. Allora soltanto ci renderemmo conto dei vantaggi della solitudine, che rende la sofferenza così muta e inaccessibile. Nell’erompere del vulcano del nostro essere, tutto il veleno assorbito dalle cose non basterebbe ad avvelenare il mondo? Quanto veleno, quanta acredine nella sofferenza!

*

     La vera solitudine ci fa sentire completamente isolati tra cielo e terra. In questo assoluto isolamento un’intuizione di agghiacciante lucidità ci rivela tutto il dramma della finitudine dell’uomo davanti all’infinito e al nulla del mondo. Le passeggiate solitarie ‒ estremamente feconde e insieme pericolose per la vita interiore – vanno fatte senza che niente venga a turbare l’isolamento dell’uomo nel mondo. Per favorire il processo di interiorizzazione e di conversione verso il proprio essere, bisogna farle di sera, quando nessuna delle seduzioni abituali può più suscitare interesse, e quando le rivelazioni sul mondo sorgono dalla regione più profonda dello spirito, là dove esso si è separato dalla ferita della vita. Quanta solitudine occorre per accedere allo spirito! Quanta morte in vita e quanti fuochi interiori! La solitudine nega a tal punto la vita, che la fioritura dello spirito, effetto dello straniarsi da essa, diventa quasi insopportabile. Non è significativo che contro lo spirito insorgano proprio coloro che ne hanno in eccesso, coloro che conoscono in tutta la sua gravità la malattia che ha colpito la vita per generarlo? Sono gli uomini pieni di salute a farne l’apologia, quelli che non hanno la minima idea di ciò che esso significhi, e che non hanno mai provato i tormenti della vita né le antinomie dolorose su cui si fonda l’esistenza. Coloro che ne hanno davvero coscienza lo tollerano orgogliosamente o lo presentano come una calamità. Tuttavia nessuno, nel fondo del suo essere, è ammaliato da tale acquisizione, catastrofica per la vita. Ma come si può essere affascinati da questa esistenza priva di attrattive, di ingenuità e di spontaneità? La presenza dello spirito indica sempre una carenza di vita, molta solitudine e una sofferenza prolungata. Com’è possibile parlare di salvezza attraverso lo spirito? Non è affatto vero che il vivere immanente sia un vivere ansioso, a cui l’uomo si sarebbe sottratto grazie allo spirito. È vero il contrario: lo spirito ci ha procurato squilibrio e ansietà, anche se nel contempo ci ha dato una certa grandezza. Cosa volete che sappiano dei pericoli dello spirito coloro che ignorano persino quelli della vita? Fare l’apologia dello spirito è segno di grande incoscienza, come lo è di squilibrio fare quella della vita. Per l’uomo normale la vita è un’evidenza; solo il malato ne è estasiato, e la magnifica per non crollare. Ma che cosa avviene di chi non può più magnificare né la vita né lo spirito? »[1]

[1] Emil. M. Cioran, Al culmine della disperazione [Pe culmile disperării], trad. di Fulvio Del Fabbro e Cristina Fantechi, Adelphi, Milano 1998 [IVa ediz. ottobre 1998], pp. 21-25.

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