Eludere l’incanto

Lettera postuma a Guido Ceronetti

Gabriele Dessin
Letteratura

A Guido Ceronetti,

Salve.
Le chiedo anzitutto: ha fatto buon viaggio su quella navicella che la aspettava con il portellone aperto? Dopotutto di lunghi viaggi Lei se ne intende. Non ho mai avuto il piacere di conoscerla, ma sa, ho letto molto di quello che ha scritto. Tre interi volumi solo di viaggi! [
1]. Un infinito Grand Tour attraverso l’Italia e l’Europa. Certo, Lei viaggiava in modo strano: piccoli hotel e locande – rigorosamente con i balconi in legno – e soprattutto musei, vicoli, targhe e rovine…

Molti potrebbero dire che Lei era disilluso, ma io so che dimostrava la più grande fiducia nell’umanità che oggi si possa avere: affidarsi ai mezzi pubblici. Anche adesso immagino stia girovagando con il suo cappello e un libriccino per le annotazioni; stia attento alla borsa! Si ricordi che già un “maledetto nipote delle tenebre” gliel’ha sottratta a Bari, nell’aprile dell’85, appropriandosi di una sua “«Lettura Alchemica della Silvia» da strabiliare” – mai più ritrovata – e un cappottino di Burberry da 280 mila lire. Ma è quasi inevitabile quando più che viaggiare si vagabonda. Un po’ Lei l’ha sempre avuta questa modalità di spostarsi, da teatrante girovago.

Ricorda quel bel film di Ettore Scola, sul romanzo di Theophile Gautier? Il viaggio di Capitan Fracassa? Ecco, l’ho sempre immaginata così mentre portava in scena, con il Teatro dei Sensibili, La Iena di San Giorgio – spettacolo per marionette ideofore.

Anche al Quirinale per il presidente Cossiga, se non ricordo male, nel dicembre dell’85.

Ho letto le lettere tra Lei e Sergio Quinzio [2]. Non credo sia un peccato di curiosità, dopotutto le ha pubblicate Lei, con una bella prefazione. Spesso si parla del poco denaro. Questo, lo ammetto, mi consola: allora non è colpa della mia imbranataggine, ma è un fatto conclamato che con la cultura si mangia poco: sia per il rancoroso mal di stomaco, che per mancanza di pecunia. Comunque, vorrei parlarle di qualcosa che ho trovato in quelle lettere. Da Cetona, il 29 sett. 1986, Lei scrive a Quinzio:

“Hai ragione a vedere nell’omosessualità una parte di male […] è un’invasione della Tenebra, hanno un bel volerla normale e alla luce del sole, è pratica ctonia, necrofilia”.

Posso anche concordare su questo, dopotutto ogni realtà del mondo sembra avere versanti illuminati dal sole e vallate coperte dall’ombra – è necessario e bello che sia così; ma se anche io non volessi approntare una difesa, devo protestare a nome di Kavafis! Ma come? Quel meraviglioso Kostantinos Kavafis di cui Lei ha tradotto con maestria impareggiabile 75 poesie! [3] Le ha portate in spettacolo con il suo teatro, ed esse celebrano proprio questa “pratica ctonia”. Ma per Lei, credo, non è importante in sé la caduta dell’uomo. Essa è un dato di fatto, ineluttabile come una legge fisica. Ciò che cerca è lo spiraglio di luce dal fondo dell’abisso.

Di poesie ne ha tradotte tante, lo so. Dai poeti antichi – Catullo, Giovenale, Marziale [4] – a quel viatico per l’esistenza dove sono intrecciate le voci di tanti, e che Come un talismano accompagna l’esistenza. Poesie sue ne ha scritte molte, con parole aride e infinite, come il mondo nomade dell’Antico Testamento:

Per essere io morto all’Assoluto Vivo come un innato parricida Tra gente già di padre nata priva; Per averlo spinto nel vuoto, pendolo Guasto e alla ricarica ostile, Non sono né premiato né punito, Per aver detto all’Inaccessibile Addio da un cortiletto senza luce Vergogna vorrei gridarmi ma resto muto [5].

Anche qui c’è dolore, “invasione della Tenebra”, ma so che per Lei “Dove passa la poesia c’è un po’ meno dolore, un po’ più coraggio a morire.” Dopotutto non fa questo il poeta, non fa questo Lei? “[P]rende di mira e colpisce a morte in un lampo tutta l’infelicità umana e tutto il male del mondo”. Ho letto con sofferenza la sua profezia, ma ancora essa trafigge il dolore con una solitaria stilla di luce: “Non riesco ad immaginare poeti, interpreti dell’essere, nell’eone che viene. Anime in esilio tante, e disperate, ma non di questo tipo, capaci di versarsi in poesia”. Siamo ricchi di tesori poetici, è vero, ma accumulati per logorarsi.

Ricorda quando nel 1998 pubblicò le poesie del suo Il Gineceo, fingendosi un dimenticato poeta turco dal nome Mehmet Gayuk? Celebrazione di donne che non sono astrazioni, ma assenze che riverberano di essenza, al di là delle mura di ogni coazione ideologica, nello sguardo onirico di un cieco cantore del femminile; altezze abbandonate ormai da entrambi i sessi.

Anche di articoli ne ha scritti molti, di volumi di saggi, di sentieri erranti Tra pensieri di altri. Lei usò un titolo che risuona nella mente di chi ha letto: La carta è stanca. Davvero questo amalgama di cellulosa è stanco di essere imbrattato inutilmente. Quante parole vuote, quanto inchiostro sterile l’hanno macchiato. E io forse compio lo stesso rito: trasfiguro come un negromante la bianca purezza in un profano verbale. Ma quanto è difficile comporre su carta frammenti di universo!

Dovrei forse, per chieder perdono, scrivere anch’io una difesa. Lo ricorda? Il suo primo volume, del 1971, In difesa della luna, e altri argomenti di miseria terrestre (anche se so bene che Lei considerava suoi volumi propriamente solo i testi poetici). Forse ciò che mi ha spinto a scriverle è proprio il desiderio di ringraziarla, almeno una volta, per averlo scritto. Un’oasi nel deserto, nulla di meno, è stato questo libro per me e gli amici che assieme a me l’hanno ritrovato – ormai quasi perduto – tra le polveri dell’industria editoriale, tra i cumoli di carta straccia che transitano dalle librerie ai maceri. “Ho visto alcuni libri di luna e ne aggiungo per fatalità di mestiere un altro, il meno informato di tecnologia e di corretta selenologia, ma il più corrotto dalle convivenze incessanti col destino umano, che è veramente uno Sposo Infernale, nato per infrangere e perseguitare – e tuttavia irresistibile”; ed anche noi, privi di resistenza, abbiamo convissuto con questo libro e le sue parole. La forza di queste pagine, lo stile terso nel quale ogni parola riverbera come il rintocco fatale della campana che annuncia all’uomo il suo tragico destino, lascia interdetti. Come se quello sterile satellite che l’uomo ha voluto calpestare altro non sia che un ologramma, un inganno, un dileggio al desiderio di supremazia dell’umano sull’universo. Non è quella la Luna delle sue pagine, ma l’altra, la diletta e silenziosa di Giacomo Leopardi che esse celebrano – e piangono.

Di filosofia Lei anche ha scritto, tema di un solo libro – compagna silente forse di tutti – ma ancora un epitaffio, un ricordo di qualcosa che ci ha abbandonato. La lanterna del filosofo Diogene non illumina più il nostro mondo, ma rare impronte sotto i nostri sguardi, le orme di quello che prima v’era, ora forse, chissà…

Ma la filosofia non patisce la sorte dei mortali; siamo noi uomini, invece, che ce ne andiamo: vi sono ancora degli esseri umani sulla terra?

Allora, sì. Ricordaci, dopo spariti, ricordaci, filosofia. Ricordaci perché ti abbiamo amata. Come e più di una donna ti abbiamo amata, cercando di afferrarti nei giri di notte per disabitate vie, di abbracciarti, di convincerti, dopo un fuggitivo spasmo, a non lasciarci subito [6].

Non vorrei trattenerla oltre, se non per dirle che all’Università ho conosciuto un suo caro amico. Io studente, Lui più che docente, e quante, quante volte abbiamo parlato di Lei. Anche pochi giorni prima del 13 settembre ci siamo casualmente incontrati per le calli veneziane e ci siamo trattenuti su quegli ultimi frammenti delle Odi di Orazio da lei appena pubblicati. E quale miglior poeta per un addio?

Non so se potrà rispondere, o se sia stato giusto scriverle. Ma immagino che Lei ora stia passeggiando dove ha sempre desiderato essere: in quella meravigliosa capitale dell’Occidente che è la celeste GerusAtene.

Con gratitudine,
al Filosofo Ignoto,
Gabriele Dessin

[1] I tre testi sono: Un viaggio in Italia (Einaudi), La pazienza dell’arrostito (Adelphi) e Per le strade della Vergine (Adelphi). Tutti i volumi presenti solo con il titolo, sono editi da Adelphi, tranne nei casi citati in nota.

[2] G. Ceronetti, S. Quinzio, Un tentativo di colmare l’abisso, Lettere 1968-1996, Adelphi.

[3] G. Ceronetti, Un’ombra fuggitiva di piacere, Adelphi.

[4] Tre volumi editi da Einaudi.

[5] G. Ceronetti, La Distanza. Poesie (1946-1996), BUR.

[6]“G. Ceronetti, La lanterna del filosofo, Adelphi.