Élise Féron

PhD, Docente, Senior Research
Fellow al Tampere Peace Research Institute (TAPRI)

Marta Bernardi
Attualità

Come posso parlare “per” le vittime e, del resto, “per” i colpevoli? Come posso trasmettere in modo accurato le loro storie, dalla sicurezza dei comfort della mia vita – accademica ed occidentale – quotidiana?

Dall’introduzione del libro “Wartime sexual violence against men: Masculinities and power in conflict zones” di Élise Féron:

Raccogliere dati empirici sul fenomeno della violenza sessuale avvenuta nel corso di una guerra è tutt’altro che semplice. I sopravvissuti preferiscono parlare della sofferenza altrui invece che della propria ed è ovviamente essenziale evitare di provocare in loro nuovi traumi (Ford et al. 2009, 5). Allo stesso modo, i fautori di tali violenze raramente riconoscono la loro diretta partecipazione e responsabilità in questi atti. Tanto i colpevoli, quanto le vittime, usano spesso metafore per parlare della violenza sessuale; questo è un evidente segnale del peso dello stigma che grava su questi atti, ma rappresenta anche un’ovvia sfida quando si tratta di analizzare le interviste. […] Non posso affermare che il mio essere una ricercatrice donna, bianca ed occidentale mi metta in una posizione ottimale per interpretare e comprendere ciò che ho visto, ciò a cui ho assistito e ciò che mi è stato raccontato. Sono perfettamente consapevole del rischio, tipico di questo genere di ricerche, di comprendere ed interpretare in modo errato un fenomeno che avviene in un contesto che non posso completamente capire, nonostante io sia ragionevolmente esperta sia della regione africana dei Grandi Laghi sia dell’Irlanda del Nord, dove sto facendo ricerca sul campo da molti anni. Inoltre, sono consapevole che, nello scegliere un approccio di “narrativa etnografica” (Björkdahl e Mannergren Selimovic 2018, 43), finirò per “prendere inevitabilmente parte nella rottura, come anche nella creazione e mantenimento, di vuoti e silenzi” (ibid., 46). […]

 [La raccolta di dati] [n]on è mai stato un processo facile e rapido, dato che la maggior parte dei sopravvissuti alla violenza sessuale (durante dei conflitti armati), sia maschi che femmine, vivono con difficoltà il dover raccontare ciò che è accaduto loro. Inoltre, i colpevoli sono di solito ben più che semplicemente riluttanti ad ammettere le proprie responsabilità nei confronti di questi atti. […] Tuttavia, i tabù che circondano il tema della violenza sessuale contro gli uomini in tempo di guerra non sono l’unico ostacolo nella raccolta di dati empirici. Molte persone, specialisti nel campo delle dinamiche di genere e nel campo medico inclusi, sembrano sorprendentemente ignari o noncuranti del problema. Ad esempio, mentre cercavo di raccogliere testimonianze di dottori e personale medico locale nella regione dei Grandi Laghi, ho scoperto che molti confondevano lo stupro maschile e addirittura tutti i tipi di vittimizzazione sessuale maschile con l’omosessualità. […]

Inutile a dirsi, svolgere ricerche sulla violenza sessuale contro gli uomini in tempo di guerra non è stato un processo facile nemmeno per me. Il gestire le reazioni negative, dall’aperto disgusto – chi, nel pieno delle sue facoltà mentali, potrebbe mai voler studiare un argomento tanto raccapricciante? – alle accuse di minare gli sforzi femministi, è stato il meno. Ma raccogliere le storie dei sopravvissuti, dei colpevoli e degli spettatori, ha portato con sé una buona dose di incubi, ansia e angoscia – soprattutto tornando dalle esperienze sul campo – che si è sommata ai miei dubbi sulla possibilità di usare queste storie estremamente personali ed intime per scrivere un libro. A volte ho avuto l’impressione di essere una ‘guardona’ e di star approfittando della fiducia che le persone da me intervistate e i miei contatti locali, alcuni dei quali sono diventati miei amici, avevano riposto in me. Come fare per “ricambiare la loro generosità”? (Wood 2006, 382) Sono profondamente consapevole delle relazioni di potere che sono connaturate al mio lavoro, a partire da come ho selezionato i partecipanti alla ricerca, alle interazioni durante le interviste, al fatto che sono io che ho deciso cosa è importante delle storie che ho raccolto e come interpretarle (Dauphinée 2007, 53). Come posso parlare “per” le vittime e, del resto, “per” i colpevoli? Come posso trasmettere in modo accurato le loro storie, dalla sicurezza dei comfort della mia vita – accademica ed occidentale – quotidiana? Sono ancora incerta su quali risposte dare a queste domande. Nei capitoli che seguono ho cercato di trascrivere accuratamente la diversità nelle loro testimonianze e di trasmettere l’irriducibile complessità dei loro percorsi, emozioni e scelte. Spero che scegliendo di concentrarmi su quelle esperienze veramente raccapriccianti, io non abbia interamente annientato il coraggio e la resilienza che spesso filtravano dalle loro storie. 

[1] Féron, É. (2018). Wartime sexual violence against men: Masculinities and power in conflict zones. Rowman & Littlefield.

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