L’esodo è quello che è: si viene cacciati, espulsi, ma alla fine per concludere la storia c’è un ritorno e questa narrazione esisteva nella mente di quelle persone che avevo incontrato al confine.
Il 28 giugno Jonathan Small, uno degli artisti che collabora con La Livella, ha inaugurato la sua prima mostra a Berlino. “Well, where do we go now?” è un documentario fotografico che racconta il viaggio dei rifugiati ucraini attraverso il confine tra Ucraina e Slovacchia. L’attenzione del fotografo è rivolta alle manifestazioni di amore incondizionato delle madri verso i loro figli che ha documentato durante durante la fuga dalla guerra. Emotivamente sconvolte, stordite e confuse, ritroviamo innumerevoli madri che si devono muovere rigorosamente in avanti e che nelle pause fisicamente richieste, dopo che l’adrenalina le ha liberate, scoppiano in lacrime. Attraverso questa narrazione visiva, il fotografo ha reso accessibile a chi guarda la testimonianza incorporea dell’esodo di queste diverse famiglie ucraine.
Prima di tutto, La Livella si congratula con lei per il suo nuovo progetto! Può dirci cosa l’ha spinta a recarsi al confine tra Ucraina e Slovacchia e a raccogliere i filmati che espone nella sua mostra?
Ci sono stati due grandi fattori di dissuasione, il primo è la frustrazione di chi difronte il notiziario può solo urlare al televisore ed il secondo è stata un’opportunità. Ho scoperto in quel periodo che un mio amico, un regista russo-israeliano, stava andando in Slovacchia per girare un film. L’ho contattato subito per capire se potessi raggiungerlo ed a lui è parsa una buona idea, pochi giorni dopo sono partito per incontrare la troupe e siamo andati insieme al confine.
Onestamente, non sapevamo cosa aspettarci. Arrivati sul posto, ci siamo resi conto che la frontiera del campo profughi era molto ben fornita e non avevano bisogno di altre cose, ma ciò di cui avevano veramente bisogno erano volontari che interagissero con i rifugiati. Non eravamo operatori sociali qualificati e non servivamo per il supporto emotivo, così abbiamo deciso che potevamo viaggiare con le famiglie: portando le loro valigie e giocando con i bambini.
Mi resi conto solo a metà strada che oltre alla rabbia ed alla frustrazione, c’era qualcos’altro che mi spingeva a muovermi. Rivivevo attraverso loro una storia privata ed universale: mia nonna era di Odessa e di lì era fuggita nel 1890 a causa della sua origine ebraica. I cosacchi durante i pogrom e avevano ucciso suo padre ed a lei non restava altra scelta. A metà del nostro viaggio ho capito che stavo guardando donne e bambini che fuggivano dalla guerra, esattamente come fece mia nonna con sua madre 130 anni fa.
Una delle descrizioni delle vostre fotografie contiene la parola “esodo” – una parola storicamente radicata e con un certo messaggio dietro.
Per me un esodo è un’espulsione, ma implica anche “torneremo nella nostra patria”. Ho pensato: “L’esodo è quello che è: si viene cacciati, espulsi, ma alla fine per concludere la storia c’è un ritorno e questa narrazione esisteva nella mente di quelle persone che avevo incontrato al confine”. Mi piace l’aspetto e il suono di questa parola e mi piace anche la sua implicazione biblica. Penso che dia più peso al movimento delle persone.
A quanto pare, c’è ancora qualcosa di sbagliato nella nostra società. Nonostante l’accesso senza precedenti a Internet e ai social media, persone di origini, culture o generazioni diverse non riescono davvero a prestarsi ascolto reciprocamente.
Assolutamente vero. Una delle mie prime mostre è stata a Tel Aviv, dove ho fatto dei ritratti ai miei amici eritrei. In quella società si vede come le persone lavorano insieme nelle cucine, ma non c’è spazio per l’interazione; l’idea della mostra era di far incontrare tutti. I ritratti sarebbero stati appesi al muro, ma i soggetti dei ritratti sarebbero stati lì a parlare con quest’altra comunità che generalmente non avrebbero incontrato.
Ricordo che mi sembrava una cosa molto semplice, ma non bisogna sottovalutare quanto le persone siano isolate le une dalle altre. E se si riesce a fare il minimo indispensabile – aprire la porta e invitare le persone in una stanza – ci si rende conto che in realtà stanno parlando e ridendo tra loro. Si scopre che tutti vogliono le stesse cose: cibo, sicurezza per i loro figli ed andare avanti. L’ostacolo più grande è che le persone si capiscano e riescano a convivere. Se il mio lavoro vi dovesse stimolare o rendere un po’ più empatici, per me è sempre la migliore ricompensa.
Grazie.
[1] Per gli interessati allo mostra che si trovano a Berlino: https://www.visitberlin.de/de/event/well-where-do-we-go-then