L’uomo è riuscito nella difficile impresa di cambiare così drasticamente le condizioni del pianeta da renderlo un luogo pericoloso per la sua stessa sopravvivenza.
Nello scorso numero de La livella Magazine, è stato pubblicato nella sezione attualità un estratto del libro La nazione delle piante di Stefano Mancuso, scienziato di fama internazionale a capo del Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale (LINV) dell’Università degli studi di Firenze. La scelta del passo, riguardante la capacità distruttiva dell’uomo sul pianeta – senza eguali nella storia della vita – non è casuale. Il 29 luglio scorso, infatti, si è “celebrato” l’earth overshoot day, il giorno in cui la Terra ha esaurito la quantità di risorse naturali rinnovabili che dovevano essere sufficienti per tutto il 2021; ciò significa che dal 29 luglio, anticipando rispetto al 22 agosto dell’anno scorso, abbiamo iniziato a impiegare per i nostri consumi risorse non rinnovabili, prendendole in prestito dalle generazioni future. Confrontando le esigenze umane (in termini di emissioni di carbonio, terreni coltivati, sfruttamento degli stock ittici, e uso delle foreste per il legname) con la capacità di rigenerare queste risorse e di assorbire il carbonio emesso, è possibile calcolare la data in cui vengono esaurite le risorse rinnovabili prodotte dal pianeta.
La notizia è stata annunciata dal consigliere Susan Aitken, leader del Consiglio comunale di Glasgow, per conto del Global Footprint Network e dell’Agenzia scozzese per la protezione dell’ambiente. Attualmente, secondo il GFN, la popolazione mondiale sta consumando l’equivalente di 1,6 pianeti all’anno e si stima che questa cifra salga a due pianeti entro il 2030 sulla base delle attuali tendenze.
Circa cinquant’anni fa ‒ a partire dai primi anni Settanta – l’umanità ha iniziato a consumare più di quanto la Terra possa produrre; da allora il giorno in cui viene superato il limite arriva sempre prima – nel 1975 si verificò il 28 novembre – a causa della crescita della popolazione mondiale e dell’aumento dei consumi in tutto il mondo. Fino a metà del diciottesimo secolo la popolazione mondiale ha idealmente tracciato sul grafico della storia un blando incremento lineare; da lì in poi, con l’avvento di innovazioni tecnologiche, la scoperta di nuove terre e i progressi della medicina, è iniziata una fase di crescita esponenziale e dal blando incremento nel tracciato siamo stati coinvolti in una brusca impennata, determinando una crescita della popolazione pari a quattordici volte. Inutile dire che ciò rappresenta una questione da affrontare, in quanto sperare che la finitezza delle risorse terrestri possa variare adattandosi ad una proliferazione umana potenzialmente incontrollata in termini di nascite e di consumi per individuo è purtroppo vana.
Come scrive Mancuso:
[…] dal momento del suo arrivo, circa 300.000 anni fa – nulla se confrontati con la storia della vita che risale a tre miliardi e ottocento milioni di anni fa – l’uomo è riuscito nella difficile impresa di cambiare così drasticamente le condizioni del pianeta da renderlo un luogo pericoloso per la sua stessa sopravvivenza. Le cause di questo comportamento sconsiderato sono in parte insite alla sua natura predatoria e in parte, credo, dipendano dalla totale incomprensione delle regole che governano l’esistenza di una comunità di viventi.
A ben vedere, la rapida crescita della popolazione dal 1900 ad oggi ha determinato un aumento della produttività e del benessere economico di una parte dell’umanità; ma il prezzo del benessere comporta una forte pressione per ecosistemi e risorse naturali. Secondo alcuni studi, sulla base degli standard di vita attuali la Terra potrebbe ospitare al massimo fra i due e i tre miliardi di persone, vale a dire la popolazione presente sul pianeta a metà del XX secolo. Le soluzioni approntabili in uno scenario di questo tipo paiono essere due: o riuscire a ridurre il nostro impatto sulle risorse terrestri grazie al progresso tecnologico oppure ridurre la popolazione terrestre. Quest’ultima possibilità, in quanto inerisce ad una sfera, quella della riproduzione, che riguarda l’intimità e la libertà di scelta degli individui – oltre ad essere soggetta ad un certo grado di impulsività propria della natura animale – tende ad essere divisiva; c’è chi la ritiene una posizione contro natura e pericolosa per la sopravvivenza della specie, e chi invece la considera un’idea non solo ragionevole ma che dev’essere applicata necessariamente.
La notizia incoraggiante è che non si dovrà forzare nessuno a smettere di avere figli in quanto pare che già naturalmente i tassi di natalità siano in calo in tutti i Paesi economicamente più sviluppati: le proiezioni indicano che la popolazione mondiale inizierà a diminuire già a partire dalla metà di questo secolo. Pare infatti che dove è maggiore il livello culturale, minore sia la fertilità; e nel nostro continente, così come in America settentrionale, Australia e Nuova Zelanda, di certo non si contano le nascite incontrollate che si hanno in Africa, dove il tasso annuo di crescita demografica è del 2,4%. Seguono America Latina e Asia (ad eccezione della Cina) anch’esse in forte crescita.
Per dare un’idea dell’espansione incontrollata di certe aree del pianeta, la Nigeria contava 50 milioni di abitanti nel 1950 e ad oggi ne conta 150 milioni; tali preoccupanti numeri hanno indotto i paesi dell’area Ecowas (l’unione subsahariana occidentale) a destinare il 5% dei bilanci pubblici al finanziamento di politiche che frenino la crescita demografica, con l’obiettivo di portare il tasso di nascita medio a tre figli per donna.
Ragionando in modo scevro da coinvolgimenti emotivi, non figliare risulta a tutti gli effetti essere il modo migliore per ridurre il nostro impatto sul pianeta in quanto diminuisce il fabbisogno energetico, le emissioni nell’atmosfera, gli spostamenti, la quantità di acqua e cibo necessari, la quantità di terra occupata e disboscata nonché la quantità di rifiuti prodotti.
É bene precisare, tuttavia, che innanzitutto la questione non si riduce unicamente ad un fattore di numero di nascite e in secondo luogo che non è veramente un concorso di colpa alla pari fra ogni umano vivente se il nostro stile di vita non è più sostenibile: a ben vedere infatti l’1% degli uomini più ricchi del mondo è responsabile di più del doppio dei consumi di 3,1 miliardi di persone meno agiate.
In definitiva quindi la questione non si riduce solamente al numero di umani presenti sul pianeta, ma soprattutto al fatto che le classi più ricche producono e consumano in maniera assolutamente sproporzionata rispetto alle classi più povere – basti pensare che appena il 10% della popolazione è responsabile del 52% delle emissioni globali.
Alla luce di questo e considerando che la maggior parte delle nuove nascite avviene nei Paesi più poveri, risulta chiaro che l’aumento della popolazione è solo una parte del problema complessivo.