Dopo aver affrontato il pensiero di Agostino d’Ippona, rimaniamo all’interno della teologia razionale con un autore che ha saputo, con un unico argomento, dimostrare l’esistenza di Dio. Questo argomento ontologico, così come venne definito successivamente, manterrà la sua forza razionale fino alla definitiva confutazione da parte di Immanuel Kant. In altre parole, la sua potenza logica verrà meno solo di fronte ad una delle più radicali trasformazioni della prospettiva del pensiero filosofico ‒ la cosiddetta rivoluzione kantiana.
Anselmo d’Aosta, vescovo di Canterbury, è stato un pensatore dalla vita densa di accadimenti e relazioni politiche, sia con i pontefici che con i sovrani d’Inghilterra. La carica di vescovo (1093), accettata solo per obbedienza e malvolentieri, non impedì ad Anselmo di profondere la sua grande capacità logico-razionale al servizio della sua fede; questo non solo nelle sue opere maggiori: il Monologion ‒ ‘Soliloquio’ ‒ e il Proslogion ‒ ‘Colloquio’ ‒, ma altresì ne La Verità, La libertà dell’arbitrio, La caduta del diavolo ed altre alle quali si affianca un corpus notevole di meravigliose ‘lettere private’ e coltissime ‘lettere istituzionali’.
Se id quo maius cogitari nequit esiste come pensiero, è in intellectu, allora esso deve necessariamente esistere anche nella realtà, in re.
Nel Monologion la prospettiva è quella di un non credente, di qualcuno che non conosce o non accetta le verità della fede cristiana, e pertanto, come sosteneva Amato Masnovo, qui Dio si trova non come soggetto, ma come predicato. La prospettiva è quella della razionalità della fede, ossia della possibilità di dimostrare la Verità della fede senza presupporre necessariamente la verità delle Sacre Scritture; si potrebbe definire come la pratica del dubbio operativo: dubito di ciò che credo affinché la razionalità sia libera di dimostrarne la verità senza interferenze che esulino dalla razionalità stessa. Come ben scriveva Sofia Vanni Rovighi, il termine fede è da intendersi “nel significato oggettivo, di ‘fides quae creditur’, ossia di ciò che è creduto, e non nel significato soggettivo di ‘fides qua creditur’” ‒ la prima è la fede nel contenuto oggettivo, razionale, intelligibile della dottrina cristiana, mentre la seconda è la fede soggettiva, personale, ossia il modo stesso in cui un singolo individuo vive la propria esperienza religiosa. Per questi motivi, ed altri, le opere di Anselmo sono un momento imprescindibile del cammino della teologia razionale.
Il Proslogion inizia con un proemio, nel quale Anselmo dichiara esplicitamente l’intento di quello che definisce il suo secondo opuscolo:
Il problema ontologico, quindi, non è la creatio ex nihilo, come era stato per Agostino, ma la vera e propria esistenza di Dio come ente ‒ seppur quantitativamente e qualitativamente differente rispetto a tutti gli altri. Il primo capitolo, infatti, è un esortazione alla mente: essa deve rivolgersi a Dio per contemplarlo razionalmente, e poterne così cogliere un’idea che possa fungere da base d’appoggio per il lavoro razionale. Già la seconda proposizione del secondo capitolo (Quod vere sit deus) ci presenta la risposta, la quale è sostanzialmente l’argomento ontologico in sé, ma questo sarà più comprensibile successivamente. Si veda dunque questo passaggio con le parole di Anselmo:
In queste poche righe è sintetizzata tutta la dimostrazione dell’esistenza di Dio, la quale agisce sulla definizione come una specie di movimento razionale implicito, o che non necessita di manifestazione se non di fronte ad un tentativo di confutazione. Il punto di partenza è la definizione della natura di Dio, della sua essenza si potrebbe dire. Si provi a ripercorrerla in questo modo: si immagini di essere un ateo, qualcuno che non crede nell’esistenza di Dio ma è affascinato egualmente dalla dottrina cristiana. La prima domanda da porsi sarebbe allora: ‘a che cosa pensa un cristiano quando pensa a Dio’? La risposta di Anselmo, ed invero non si vede motivo alcuno per il quale questa risposta non si possa considerare la migliore, è: Dio è ciò di cui non si può pensare il maggiore. Ossia, Dio è la sommità di ogni cosa, è il massimale di tutto l’esistente, e non è possibile pensare a qualcosa che sia più grande quantitativamente e soprattutto migliore qualitativamente rispetto a Dio. A questo punto l’ateo (che Anselmo chiama ‘insipiens’ e cioè ‘stolto’), potrà ribattere: ‘accetto tale definizione, ma questa cosa della quale non si può pensare il maggiore non esiste ontologicamente, ossia non esiste nella realtà delle cose’. Ma Anselmo non teme più nulla: sa già di aver vinto la partita perché implicitamente, nello stesso momento in cui ha deciso di ragionare su questa definizione, lo stolto ha dichiarato l’esistenza di Dio. Lo straordinario meccanismo logico di Anselmo si è chiuso come una trappola attorno al pensiero dello stolto, e non resta altro che farlo scattare.
Risponde quindi Anselmo: ‘se tu accetti o neghi la mia definizione, ciò non è importante, ma dimostri almeno di comprenderla; se la comprendi, allora tale definizione esiste nel tuo intelletto, ovvero esiste come tuo pensiero’. Infatti, anche quando il cuoco pensa al piatto che vuole preparare, è evidente che quel piatto non esiste ancora nella realtà, ma esiste nel suo pensiero tanto da essere il modello del piatto che egli andrà a creare. Quindi, possono esistere nell’intelletto cose che nella realtà non esistono, o non esistono ancora o non esistono più. Questo deve essere accettato dallo stolto, in quanto è difficilmente negabile. E proprio con questa piccola esplicitazione l’argomento ontologico si chiude, arrivando alla sua conclusione inevitabile:
Il movimento logico è dotato di un’incredibile potenza proprio grazie alla sua estrema semplicità: se id quo maius cogitari nequit esiste come pensiero, è in intellectu, allora esso deve necessariamente esistere anche nella realtà, in re. Altrimenti, se esistesse solo nell’intelletto si potrebbe pensarlo come esistente nell’intelletto ed anche nella realtà, e quindi si potrebbe pensare a qualcosa di più grande di ciò di cui non si può pensare il maggiore. Semplicemente, esistere nell’intelletto e nella realtà è più che esistere solo nell’intelletto; perciò è un attributo che appartiene necessariamente a ciò di cui non si può pensare il maggiore. Adottando un linguaggio più contemporaneo, si potrebbe dire che l’attributo dell’esistenza in re appartiene necessariamente all’ente ontologico massimo, ossia a ciò che è massimo rispetto ad ogni altra cosa.
Aggiunge Anselmo: “E questo ente esiste in modo così vero che non può neppure essere pensato non esistente [Quod utique sic vere est, ut nec cogitari possit non esse]”. [4]
Dovrebbe risuonare ora nella mente un parallelismo con quel movimento elenctico del quale parlava Aristotele rispetto al principio di non contraddizione. Si ricorderà come caratteristica della verità elenctica sia di essere innegabile, poiché è riconfermata persino dalla prorpia negazione. In questo senso anche l’argomento ontologico anselmiano in parte richiama questa struttura, perché proprio la negazione che si esplica nella forma: ‘ciò di cui non si può pensare il maggiore non esiste nella realtà’, fa scattare il meccanismo di auto conferma dell’affermazione ‘esiste necessariamente nel pensiero e nella realtà’. Vi sono però delle fondamentali differenze: innanzitutto dev’essere data la definizione di Dio come ciò di cui non si può pensare il maggiore. In secondo luogo dev’essere riconosciuta come esistente in intellectu ‒ cioè si deve presupporre la sua comprensione, e bisognerebbe capire bene che cosa significhi ‘comprendere’. In altre parole, se l’èlenchos del principio di non contraddizione vale per ogni proposizione (poiché la contraddizione è impossibile), qui sembra che il meccanismo funzioni solo per questa precisa definizione di Dio, e che operi una sorta di ponte ontologico-razionale tra l’intelletto e la realtà: la razionalità diviene il luogo in cui si dimostra l’esistenza di qualcosa che esiste nella realtà, in quanto questa cosa non è esperibile sensibilmente. Il punto cruciale è il seguente: qualora si ritenga di dover negare il principio di non contraddizione, tuttavia rimarrà comunque impossibile contraddirsi, perché qualsiasi cosa si dica sarà determinata, e quindi incontraddittoria. Invece, dopo aver seguito l’argomento ontologico anselmiano, se si decide di voler negare l’esistenza di Dio si potrà continuare a vivere come se Dio non esistesse, e sarà possibile farlo. In questo senso si manifesta in modo naïve la differenza tra l’èlenchos e l’argomento ontologico anselmiano.
Tuttavia, nonostante questo, la lucidità ed il rigore razionale di Anselmo, il quale si affatica a dimostrare logicamente ‒ e con quale maestria ‒ ciò che avrebbe potuto credere anche sola fide, ci impegna a provare un sentimento di riconoscenza nei suoi confronti per aver compiuto un passo decisivo nel cammino della filosofia e del pensiero umano.
[1] Anselmo d’Aosta, Proslogion, in Opere Filosofiche, a cura di Sofia Vanni Rovighi, Laterza, Bari 2008, Proemio, p. 72.
[2] Ivi, cap. II, p. 76.
[3] Ibidem.
[4] Ivi, cap. III, p. 76.