Il parlare è in antitesi con Dio nella misura in cui il linguaggio ‒ strumento la cui fattura è squisitamente umana ‒ nel suo processo che è determinante ‒ ogni proposizione è una determinazione ‒ non può che essere inadeguato di fronte all’indeterminabile.
Non è l’utilità in sé dello strumento, se si desidera congiungersi a Dio, ciò su cui va posta l’attenzione; o, in altro modo, un linguaggio che si costituisce su esigenze economiche – quando dio è il denaro, e il denaro è dio – non è la ‘porta stretta’ che conduce al Regno dei cieli (Mt. 7:13).
Tuttavia, per grazia, quel Dio che abbiamo inteso come ciò di cui non si può pensare il maggiore, c’intende ugualmente, a prescindere dal linguaggio.
Infatti, la scelta di questo mezzo, risulta fuori luogo, anemica. Sopratutto perché chiunque sia coinvolto nel processo di evoluzione verso Dio esperisce il silenzio; il silenzio di Dio, il silenzio dello stupore, il restare senza parole nella (ri)scoperta del divino.
Dunque com’è possibile, essendo pregiudicato lo strumento che si usa, raccontarvi del Suo passaggio che è falcidie, del volersi affondare in Dio?
L’eterno riproporsi del rapporto, la fascinazione verso Dio che con la sua voce ci trascina a sé ‒ non con le sue parole ‒ in un infinito che è languore, in un compenetrarsi che porta al lasciarsi amare.
Il maestro non è colui che insegna, ma colui che dà tutto se stesso affinché il discepolo possa accrescersi. “Nessuno può venire a me se non è trascinato da Dio, non c’è nemmeno bisogno di capire perché è sufficiente sentire la sua voce”(Gv 6:44).
A ben pensare, ogni nostro dire “dio” non risulta altro che un gorgheggio, una pernacchia di neonato che esperisce la sua voce; per questo i più grandi pensatori eludono il dire nel proporre una via che sia un’eureka:
Le mie proposizioni illuminano così: colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è asceso per esse ‒ su esse ‒ oltre esse (egli deve per così dire gettar via la scala dopo essere asceso su essa.).
Egli deve trascendere queste proposizioni; è allora che egli vede rettamente il mondo.
Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere. (Wittgenstein, Tractatus, 6.54, 7)
Non c’è una volontà di ‘serrare le labbra ad ingorghi di parole’ ‒ solo tacendo si può parlare di Dio ‒ piuttosto quella di un silenzio di carattere interiore che non esclude il poter urlare a Dio la nostra giostra quotidiana. È il tentativo di farsi cerchio nell’attesa di diventare sfera; L’eterno riproporsi del rapporto, la fascinazione verso Dio che con la sua voce ci trascina a sé ‒ non con le sue parole ‒ in un infinito che è languore, in un compenetrarsi che porta al lasciarsi amare.
Non nego altresì che il rapporto con il divino sia anche rapporto ermeneutico di Verità ‒ i primi tremuli passi ‘scossi dagli incendi che in me crepitavano ed ora fiammeggiano’ ‒ e certamente è per ognuno diverso da quello d’altri. Un muoversi da viandante: solitario non egoistico.
Le litanie di Merry Del Val sono a tal proposito un esercizio esemplare, come gli allungamenti prima di una corsa. Dico ‘non egoistico’ perché nuovamente si è dinanzi ad un paradosso così famoso che neppure si ricorda: ognuno è il prossimo tuo. Non c’è azione che si compia verso l’altro da noi che non sia azione verso noi e verso Dio. Non vi è, in questo, nulla di nuovo ed il Qōhelet ci ripropone la sua verità:
ogni sarà già fu
ed il si farà
fu fatto,
non si da sotto il sole la novità
si parla di qualcosa
_ guarda qui! Del nuovo _
in mondi prima di noi già c’era (Qo. 1: 9-10)
Farsi cerchio significa lasciare in sé dello spazio che viene, allo stesso tempo, riempito, in un gioco vòlto a lasciar andare nelle nostre meditazioni l’aspetto più fisico con le sue esigenze, per poter accogliere così la bellezza.
Che questo implichi uno sforzo, è evidente. Ed è forse questo un destino?