Si presume che tutti conoscano – o dovrebbero conoscere – le principali opere di Dante
Se qualcuno ci chiedesse “Chi è l’autore più importante della nostra letteratura?”, la risposta sarebbe quasi sicuramente Dante Alighieri. Durante di Alighiero degli Alighieri, questo il suo nome di battesimo, è ovviamente l’autore della Divina Commedia, opera così battezzata da Giovanni Boccaccio[1] su modello della definizione che Publio Papinio Stazio dà dell’Eneide: «nec tu divinam Aeneida temta». È un fatto peculiare che nonostante sia l’opera più celebre della nostra storia, il titolo originale sia ancora oggetto di controversia tra gli studiosi. Alcuni credono sia Comedia (in latino) rifacendosi all’Epistola a Cangrande della Scala: «Libri titulus est: “Incipit Comedia Dantis Alagherii, Florentini natione, non moribus”» [«Incomincia la Commedia di Dante Alighieri, fiorentino di nascita, non di costumi» – a proposito del proverbiale risentimento dantesco]. Altri propongono Commedìa o Comedìa, in quanto Dante nell’Inferno per due volte nomina il poema con questa accentazione alla greca, non conforme con la lingua dell’epoca e imposta dal verso. In fine, quello che prevale nella tradizione è invece Commedia.
Tra l’altro, Dante è anche erroneamente considerato il padre della lingua italiana. Sicuramente le sue opere divennero imprescindibili per ogni italico successivo al grande autore fiorentino, e con il suo De vulgari eloquentia fu il precursore dell’idea di un idioma unico, ma la lingua italiana scritta venne in realtà costruita sul fiorentino del Trecento prendendo come maggiore modello Francesco Petrarca. Davvero non sempre ciò che è più noto è anche certo.
Si presume che tutti conoscano – o dovrebbero conoscere – le principali opere di Dante; tuttavia ve ne sono alcune che spesso non vengono neppure menzionate (a parte negli esoterici conciliaboli dei dantisti), e tra queste ci sono il Fiore ed il Detto d’Amore, che sono però di dubbia attribuzione. E qui inizia il mistero di cui vorrei parlarvi, e così accompagnarvi in un breve viaggio alla ricerca di un padre ignoto: vi sono due poveri testi orfani che hanno bisogno d’aiuto.
Vorrei cominciare con un’analisi formale delle due opere, una specie di identikit letterario: la prima è una ‘corona’, una serie di componimenti isometrici sul medesimo argomento, di 232 sonetti con schema metrico ABBA ABBA CDCDCD, considerabile poemetto in varie stanze perché sviluppa un argomento narrativo unitario; inoltre esiste un collegamento formale tra i sonetti secondo il procedimento delle coblas capfinidas in cui le ultime parole di una strofa vengono riprese all’inizio di quella seguente; la seconda, invece, è un poemetto composto da 480 settenari a rima baciata.
Le due opere furono riscoperte nel 1878 in un codice situato nella allora Biblioteca della Facoltà di Medicina di Montpellier, e da quel momento i filologi hanno cercato di comprendere chi sia l’autore e se entrambi i poemetti appartengano allo stesso autore.
Infatti il manoscritto non era autografo, e quindi come sempre accade gli studiosi si divisero in due schieramenti opposti: chi ne attribuiva la paternità a Dante, e chi la negava. Dei secondi, alcuni proposero anche autori alternativi. Nonostante la produzione scritta dei filologi danteschi potrebbe oggi riempire interi saloni (come la Biblioteca classense di Casa Dante, a Ravenna), questo mistero rimane ad oggi insoluto; ma, per ora, le due opere sono comunque annoverate nel canone dantesco.
Riprendiamo la nostra analisi: i due componimenti sono un rifacimento in fiorentino del Roman de la Rose, l’opera ‒ insieme alla Commedia ‒ più importante del Medioevo. Due furono gli autori del poema francese: Guillaume de Lorris e Jean de Meun. La prima parte, composta da 4058 versi, esprime al meglio la visione trobadorica dell’amor cortese; la seconda parte, di più di 18000 versi, parodizza la visione dell’amore aggiungendo: umori misogini, cinismo razionalista e libertino, e lunghe digressioni, facendo così rientrare l’opera nella dimensione del naturalismo neoplatonico-cristiano, nel quale l’attrazione e l’unione sessuale non sono altro che un’astuzia della Natura per garantire la propagazione della specie.
Il Fiore, dunque, è un conciso rifacimento della parte narrativa e allegorica del Roman de la Rose; il Detto d’Amore, invece, fornisce una piccola enciclopedia dell’amore cortese, silloge tratta da differenti sezioni del poema francese.
Nei dibattiti filologici sulle attribuzioni dell’autore/autori, l’ipotesi dantesca venne inizialmente valutata per la prima opera ma scartata per la seconda in quanto, citando Francesco Torraca: «io non ho mai creduto che un poemetto semi-osceno fosse uscito dalla stessa mente, onde uscì la Divina Commedia». In altre parole, chi di noi assocerebbe con disinvoltura all’austera immagine del Sommo poeta un testo licenzioso? Infatti, secondo Gianfranco Contini, il problema maggiore nell’attribuzione riguardava proprio l’oscenità dell’opera: «poemetto increscioso, e perciò mal giudicabile storicamente, ai lettori dell’Otto e del primo Novecento» – e forse anche ai contemporanei.
Passiamo ora più propriamente al contenuto dei testi. Il Detto d’Amore si apre con una dichiarazione: l’autore scrive per volontà di Amore, del quale è fedele servitore.
Amor sí vuole, e par-li,
Ch’i’ ‘n ogni guisa parli
E ched i’ faccia un detto,
Che sia per tutto detto
Ch’i’ l’aggia ben servito.
Po’ ch’e’ m’ebbe ‘nservito
E ch’i’ gli feci omaggio,
I’ l’ho tenuto o∙maggio
E terrò giama’ sempre;[2]
Successivamente Ragione argomenta contro Amore; ma l’autore respinge questi suoi ragionamenti e si dedica ad un elogio della bellezza di quella donna che ha rapito il suo cuore, di cui è perdutamente innamorato e che vorrebbe conquistare. A questo punto, tra Amore e Ragione si inserisce Ricchezza – che l’autore ammette di conoscere ben poco, visto che è povero in canna – e sbarra la via più breve per fare breccia nel cuore dell’amata. Infatti, Ricchezza lo avverte che se vorrà proseguire nel suo intento senza il suo aiuto, si troverà presto ad essere infelice ospite di Folle-Larghezza (la smodata prodigalità) e, di conseguenza, avrà a che fare con Povertà e con il suo dolce pargolo, Imbolare (il Furto). Ma Amore non vuole darsi per vinto, e dopo aver sconsigliato all’autore di seguire la via di Ragione, lo invita a puntare sulla massima fedeltà all’amata, se vorrà goderne i favori. A tutto questo fa seguito un vero e proprio manuale dell’amor cortese, che insegna come diventare perfetti amanti. L’opera si conclude con un desiderio dell’autore stesso: poter avere un amico perfetto, disponibile, fedele ed equilibrato, che possa aiutarlo nella sua amorosa avventura.
Almeno su una questione i filologi della prima metà del Novecento sono stati concordi: le due opere debbono essere attribuite allo stesso autore, perché: « un poemetto non può scompagnarsi dall’altro, e […] se si attribuisce il Fiore a Dante, o Durante, Alighieri, conviene anche attribuirgli il Detto d’Amore».
Per avvalorare questa tesi bisogna prendere in considerazione quelle parti dei due poemetti che più si discostano dal modello francese, poiché in effetti sono quelle in cui più si manifesta lo stile proprio dell’autore. E proprio qui si ritrovano delle cosiddette ‘curiose concordanze di dettato’. Entrambi condividono la stessa lingua (fiorentino con abbondanti francesismi ed elementi derivati dal siciliano lirico), lo stesso tema e addirittura derivano dal poema francese in modo complementare.
Si aggiunga a questo che l’eccessivo virtuosismo lirico – dovuto alla rima equivoca che ha imposto all’autore l’utilizzo di termini rari e di gallicismi e di sfruttare costantemente le possibilità semantiche e metaforiche dei vocaboli – assieme alle rime composite e alle omofonie, hanno reso il Detto d’Amore un testo a volte difficile da interpretare. Tuttavia, se Dante fosse davvero l’autore misterioso di quest’opera, l’utilizzo dei temi tradizionali dell’amor cortese, affiancato ad un sistema di metafore teologiche e alla loda alla donna per l’incanto che la sua sola presenza produce, indicherebbero che proprio in questo testo vi sarebbe il passaggio dell’autore dalla lirica tradizionale al Dolce Stil Novo, «lo bello stilo che m’ha fatto onore». [Dante, Divina Commedia, Inferno, I, v. 87]
E quando va per via,
Ciascun di lei ha ‘nvia
Per l’andatura gente;
E quando parla a gente,
Sí umilmente parla
Che boce d’agnol par là.[3]
Se ciò fosse vero, si dovrebbe compiere una rilettura complessiva dell’intero corpus dantesco; tuttavia l’attribuzione a Dante di queste opere mi sembra in molti punti forzata.
Uno dei maggiori sostenitori della non paternità dantesca è Pasquale Stoppelli, che ha pubblicato nel 2011 un saggio nel quale non cerca di trovare un genitore per questi poveri testi orfani, ma semplicemente di fugare l’errore della loro attribuzione al poeta fiorentino. Le tesi fondamentali di Stoppelli sono tre, e vorrei, per concludere, riportarle. La prima è questa: la lingua mostra una dimestichezza con il francese acquisibile solo dopo un prolungato soggiorno in Francia e l’impasto linguistico va giudicato come incapacità di staccarsi dal modello, non come ‘sperimentalismo’. La seconda, invece, nota come la perizia del versificatore nel testo ‘originale’ sia assai minore di quella dell’edizione di Contini, il quale ha corretto molte anomalie attribuendole alla distrazione del copista. La terza, legata alla precedente, riconosce come gli stilemi in comune con le opere certamente scritte da Dante siano in realtà di larghissima diffusione nei poeti del Duecento e per questo, con la medesima metodologia utilizzata da Contini, si potrebbero individuare legami anche più stretti con l’opera di altri autori. Io, personalmente, ritengo che queste tre tesi siano abbastanza solide.
Ovviamente, è impossibile attribuire o meno con certezza la paternità di queste due opere – finché non compaia miracolosamente un autografo che magari oggi giace nascosto in qualche sotterraneo o perduto tra i codici di qualche antica biblioteca. Però questo ‘giallo’ filologico è oramai iconico, appassionante (almeno per alcuni di noi), e meritava di essere raccontato. Dopotutto, come mi disse un giorno un professore universitario geniale quanto eccentrico: «Dante è un non morto», e, certamente, anche i suoi misteri sono ancora vivi.
[2] Dante Alighieri, Le Opere – Volume VII – Opere Di Dubbia Attribuzione E Altri Documenti Danteschi – Tomo I – Il Fiore E Detto D’Amore, Salerno Editrice, Rubano 2020, p.353
[3] Dante Alighieri, Le Opere – Volume VII – Opere Di Dubbia Attribuzione E Altri Documenti Danteschi – Tomo I – Il Fiore E Detto D’Amore, Salerno Editrice, Rubano 2020, p.367