Ci sembra scontata la vita. Sembra che tutto sia come deve essere, in questo mondo. Ma se davvero ci guardiamo attorno, soffermandoci sugli uomini che abbiamo accanto e i luoghi che abitiamo, se scrutiamo senza pregiudizi dentro noi stessi, tutto diventa caotico e si avvolge in turbinii di incomprensioni e non senso. “Che debbo fare” [1] – ci viene da chiederci – nell’angosciosa consapevolezza che tutto intorno a noi risuona l’eco di un vuoto nulla? Quelle che ad una prima occhiata ci sembravano cose solide e certe, infatti, pian piano si sgretolano sotto ai nostri occhi e rivelano tutta la loro incertezza.
Ogni opinione, ogni giudizio, ogni valore e ogni persona si mostra nella sua “ambiguità ambigua, e in una certa dubbia oscurità dalla quale i nostri dubbi non possono eliminare tutta la chiarezza, né i nostri lumi naturali cacciare tutte le tenebre” [2].
Nella morsa di questa oscurità vive l’interlocutore di Pascal che incontriamo nei frammenti che compongono i Pensieri. Anche noi, inoltrandoci in queste rovine, in questo paesaggio frastagliato, in questo luogo che tiene assieme molti luoghi, molti centri, molte vie e molti sentieri interrotti, e in cui il nostro incedere zoppica, siamo presi da sgomento.
Forse non ci risolviamo nella nostra miseria e già l’interrogarla può accendere un fioco lume capace di fendere la notte che ci sembrava impenetrabile.
Accade alle volte di trovarci di fronte agli occhi “l’accecamento e la miseria dell’uomo, guardando tutto l’universo muto e l’uomo senza luce abbandonato a se stesso” [3] e al suo cuore vuoto e “pieno di ordura” [4].
Se vi fosse una ragione suprema che guida in ogni dettaglio la vita e il mondo, se in questa ragione universale si specchiasse e traesse la sua dignità e il suo essere la ragione degli uomini e se nulla fosse ad essa ostacolo, di certo non saremmo gettati in questo oceano di sconforto, invece in questo abisso che sembra senza spaccature, in questa “terra di maledizione” [5] continuiamo a vivere.
Ma, nonostante la condizione in cui versiamo, di fronte alla quale si dovrebbe provare solo pietà e compassione, sempre illusi e guidati dalla nostra immaginazione e dall’abitudine, attanagliati fra le morse della forza e della violenza che indossano la maschera della giustizia, cosa facciamo noi tutti? Ci di-vertiamo. Scegliamo “di non pensarvi affatto” [6]. Ultimi anche fra gli animali, tanta la nostra bassezza, incredibilmente ci consideriamo il primo fra gli dèi, e ciò si può presentire ogni qual volta risuona tra le nostre labbra il più lurido dei pronomi, quando ripetiamo incessantemente e senza vergogna: «Io… io… io!». Nemmeno in queste circostanze sentiamo che, più che al canto di un dio, siamo vicini al ragliare di un asino!
Così, obnubilati dal nostro stesso amor proprio, “corriamo senza preoccupazioni nel precipizio dopo aver messo qualcosa di fronte a noi per impedirci di vederlo” [7].
Se questa è la nostra condizione, perché allora continuare a vivere? Perché continuare con questo scempio che siamo? Forse perché in esso non ci risolviamo e già quest’interrogarci può accendere un fioco lume capace di fendere la notte, che ci sembrava impenetrabile. Ecco l’enigma che ci porge Pascal: “Non si è miserabili senza consapevolezza: una cosa rovinata non lo è. Non vi è che l’uomo di miserabile” [8]. Cosa sta ad indicare questa consapevolezza? Ci dice che è “miserabile il conoscer[si] miserabile, ma è essere grande il conoscere che si è miserabile” [9]. In questa riflessione risplende la grandezza dell’uomo, che è il pensiero, umile, frammentato e dolente, come la luce flebile e incerta della lanterna dell’eremita, che viaggia sperando che la notte abbia un termine, ma che può illuminare solo i proprio piedi infangati.
Vediamo nell’uomo mescolarsi luce e tenebra, grandezza e miseria, e non possiamo che chiederci: “E l’uomo che cos’è?” [10] Dobbiamo dire che è un nulla? Un errore? “Quale chimera è mai l’uomo? quale novità, quale mostro, quale caos, quale soggetto di contraddizioni, quale prodigio? […] Chi scioglierà questo groviglio?” [11]. Questo nodo si scioglierà, per Pascal, in Gesù Cristo, in cui convive “la croce e la follia” [12]: non è infatti folle una verità che si mostra nella contraddizione, che ci mostra “un Dio umiliato e fino alla morte”, un Dio-uomo “che trionfa sulla morte mediante la sua morte”? [13] Cristo è la contraddizione e in esso si affermano tutte le nostre contrarietà.
Il Dio che così incontriamo non è, però, il dio dei filosofi o il dio della logica, è il Dio che s’è incarnato in “uomo di dolori” [14], che affronta e non elude il male, rendendolo scandaloso e insopportabile perché contrapposto alla sua infinita bontà. È il Dio di Giobbe, di fronte al quale si impreca e ci si strugge per la propria inettitudine e per l’eterna corruzione del mondo che abitiamo, attanagliato nel “mysterium iniquitatis” [15]. Un Dio che ha promesso la nostra redenzione, ma che ci ha abbandonati alla nostra Caduta, lasciandoci in un rapporto con Lui ambiguo, sempre segnato dalla velatezza e dal nascondimento.
Il Peccato Originale è ciò che permette a Pascal di mostrare la condizione equivoca dell’uomo e la convivenza tra la scintilla divina che lo abita e la corruzione che lo segna indelebilmente, rendendolo simile ad “un re spodestato” [16]. Non spiega nulla, ma illumina il chiaro-scuro che attanaglia il mondo e le sue anime. Questa condizione rispecchia il volto tagliente di un Deus absconditus, che si riversa nel mondo, lasciandolo però muto. “Il nodo della nostra comprensione si ripiega e si riavvolge in questo abisso. Di modo che l’uomo è più inconcepibile senza questo mistero di quanto questo mistero sia inconcepibile per l’uomo” [17].
Ma che ne rimane di noi? La verità del cristianesimo è tragica, ci mostra una miseria umana insanabile, una grandezza che è la mera consapevolezza della volgarità che abita il nostro cuore; ci rivela un Dio d’Amore, ma allontanandolo tanto da non poterlo comprendere se non come un Dio-che-si-nasconde; afferma l’originarietà della nostra beatitudine, ma allo stesso tempo l’eterno presente della nostra corruzione; ci parla di una salvezza, ma relegandola in un tempo che verrà solo dopo il compimento del male su questa terra, e che sarà un avvento di pace solo per pochi uomini, per un resto, per uno scarto.
E noi, qui, restiamo soli con una verità che dà angoscia, soli e disperati nella nostra lucidità.
[1] B. Pascal, Frammenti, trad. it. di Enea Balmas, BUR, Milano 2017, p. 105, fr. 2 (227, edizione Brunschvicg).
[2] Ivi, p. 171-173, fr. 109 (392).
[3] Ivi, p. 255, fr. 198 (693).
[4] Ivi, p. 211, fr. 139 (143).
[5] Ivi, p. 599, fr. 545 (458).
[6] Ivi, p. 195, fr. 133 (168).
[7] Ivi, p. 239, fr. 166 (183).
[8] Ivi, p. 453, fr. 437 (399).
[9] Ivi, p. 175, fr. 114 (397).
[10] Sal 8, 5, trad. it. di G. Ceronetti, Il libro dei Salmi, Adelphi, Milano 1985.
[11] B. Pascal, Frammenti, cit., p. 189, fr. 131 (434).
[12] Ivi, p. 345, fr. 291 (587).
[13] Ivi, p. 297, fr. 241 (765).
[14] Is 53, 3, trad. it. di G. Ceronetti, Il libro del profeta Isaia, Adelphi, Milano 1981.
[15] 2 Ts 2, 1.
[16] B. Pascal, Frammenti, cit., p. 177, fr. 117 (409).
[17] Ivi, pp. 191-193, fr. 131 (434).