David Hume

Critica della causalità

Thomas Masini
Filosofia


Hume porta a compimento la critica del principio di causalità e determina come non sia possibile dimostrare la regolarità della natura – dei rapporti causa-effetto tra gli accadimenti naturali.

     Lungo il cammino del pensiero filosofico è necessario, a volte, mettere in discussione radicalmente tutto ciò che è stato acquisito, per poter dissipare gli errori accumulati e ripartire su fondamenti ancora più solidi. L’importanza fondamentale di questa pars destruens del lavoro filosofico è stata messa in luce nell’articolo su Cartesio, come il gentile lettore ricorderà bene. Ci si trova di fronte ora, nuovamente, ad un caso simile, e in particolare all’opera compiuta dal filosofo scozzese David Hume (Edimburgo, 1711-1776).

     Per la verità sarebbe necessario aver affrontato, almeno nelle loro strutture teoretiche, le opere di altri due autori che costituiscono in un certo senso i prodromi dell’opera humiana: John Locke e George Berkeley. L’unica giustificazione adducibile per questa mancanza è la natura non specialistica di questo percorso all’interno della storia della filosofia teoretica; per collocazione editoriale, tempistiche e natura del progetto non sarebbe possibile approfondire tutti gli aspetti e le figure che pure lo meriterebbero. Alla completezza si è quindi preferita la rapidità e la perspicuità.

     Anche Hume, come i filosofi che l’hanno preceduto, si è interrogato circa la natura delle percezioni della mente e ha ritenuto corretto distinguerle in due tipologie. Le prime sono le ‘impressioni’, che corrispondono alle sensazioni e alle riflessioni che la ragione compie su di esse. Evidentemente la loro origine è esperienziale, poiché le sensazioni giungono dall’esterno in modo autonomo e a prescindere dalla volontà della mente pensante. Le seconde, invece, sono le ‘idee’, le quali corrispondo alle forme del pensare (conoscere, dubitare, credere, ritenere etc.), le quali invece dipendono totalmente dai processi interni della mente pensante. Proprio per queste loro origini così diverse, le impressioni sono identificabili come il modello originale sul quale si basano le idee, le quali altro non sono che processi mentali che rimodellano e strutturano le impressioni acquisite dall’esperienza sensibile; per questo motivo le idee sono percezioni più deboli e sbiadite rispetto alle impressioni, ed inoltre il potere creativo della mente è limitato dalla presenza, quantità e qualità di quest’ultime.

     Data questa struttura fondamentale, il primo passo decisivo compiuto da Hume riguarda l’analisi di ciò che accade realmente quando la mente si appresta a ragionare intorno alla realtà esterna ad essa, ossia al mondo sensibile. Abbreviando il corso del ragionamento, bisogna rilevare come il principio fondamentale applicato dalla mente nel suo tendere alla realtà esterna sia quello di causalità. In altre parole, quando la mente cerca di ordinare e dare una struttura razionale al mondo, lo fa applicando alle impressioni che riceve dei legami di causa-effetto che le consentano non solo di dare ragione di quanto accade, ma anche di prevedere cosa potrà accadere in futuro. Ad esempio, ogni qual volta si è fatto esperienza di ciò che si chiama “fuoco”, erano presenti anche le impressioni di “luce” e di “calore”; poiché questo è sempre accaduto, si determina la legge generale per la quale il fuoco è causa di effetti quali luce e calore. Ciò su cui Hume riflette particolarmente è l’esigenza di avere un’esperienza pregressa per poter istituire il legame di causalità. Infatti, è dalla molteplicità dei casi esperienziali pregressi che si deriva per induzione l’implicazione di una causa con il suo effetto. Si provi ad immaginare un fuoco acceso, ma si mettano da parte tutti i ricordi concreti delle esperienze precedenti avute con il fuoco; sarebbe possibile enunciare come necessario il suo rapporto con il calore? Hume sostiene di no, infatti non esiste nessuna qualità implicita nel “fuoco” che determini la sua correlazione necessaria con il “calore”. Poiché ‘causa’ed ‘effetto’ sono eventi diversi e distinti, non è possibile avere una conoscenza a priori degli effetti, a prescindere cioè dall’applicazione del principio di causalità alle esperienze pregresse. La domanda che filosoficamente sorge spontanea a questo punto è la seguente: vi è un fondamento razionale che determini la necessaria verità e realtà delle conclusioni tratte dall’applicazione del principio di causalità alle percezioni derivate dall’esperienza? La risposta è “no”, perché anche se ogni volta che si è incontrato un fuoco si è percepito anche il calore, ciò non determina che necessariamente anche in futuro ogni volta che si incontrerà un fuoco sarà presente anche il calore; in questo senso Hume porta a compimento la critica del principio di causalità e determina come non sia possibile dimostrare la regolarità della natura – dei rapporti causa-effetto tra gli accadimenti naturali. 

     Per portare a compimento questo ragionamento e passare al successivo restano da esplicitare alcuni punti. Innanzitutto è necessario dire che il principio di causalità non è altro che una congettura, una presupposizione della mente pensante; in questo senso non può avere – e non ha – nessun valore logico, ma il suo valore è prettamente psicologico. Il percorso che ha portato all’instaurazione della causalità come principio fondamentale è di questo tipo: abitudine – credenza – fede; si ha fede che il mondo sia ordinato secondo catene di cause ed effetti. In secondo luogo, venuto meno questo principio, viene meno anche la possibilità di indurre dalla realtà sensibile l’esistenza di una realtà sovrasensibile, ossia di indurre dal mondo fisico l’esistenza di un mondo metafisico. In questo senso, nella misura in cui sia basato sul principio di causalità (e nel caso dell’èlenchos vi sarebbe da discutere) ogni argomento ontologico o prova dell’esistenza di Dio risulta fondata su di un principio che, nella migliore delle ipotesi, è solo probabilistico. In terzo luogo, se tutti i giudizi sulle verità di fatto (quelli basati sull’esperienza) possono avere un valore solo probabile, esistono invece giudizi su verità di ragione che hanno valore universale e necessario. Ovviamente ci si riferisce agli ambiti della matematica e della logica, ossia della conoscenza delle relazioni tra idee che si ottiene mediante la deduzione. Per fare un esempio, i numeri e le operazioni matematiche appartengono alla tipologia delle ‘idee’, e per questo la somma 5+5=10 è un giudizio di ragione, poiché nel 5+5 è già incluso a priori il risultato 10 prima ancora che se ne faccia esperienza concreta risolvendo l’addizione. Questo però vale solo, appunto, per le idee e non è possibile estendere questa qualità alle impressioni, e quindi alla conoscenza del mondo esterno – tale estensione sarebbe indebita.

     Il secondo passo decisivo compiuto da Hume riguarda la sostanzialità. Come citato sopra, già Locke e Berkeley avevano fortemente criticato il concetto di ‘sostanza’; per il primo la sostanza è inconoscibile, mentre il secondo addirittura nega l’esistenza di qualsiasi tipo di sostanza materiale. Hume prosegue su questa linea di pensiero, e mostra come in verità non esista alcuna impressione (ossia, ricordiamo, percezione derivata dall’esperienza empirica) che corrisponda all’idea di ‘sostanza’. Dunque l’idea di sostanzialità deve avere un origine differente, e difatti Hume ne esplicita due dimensioni. La prima è legata al principio di causalità: poiché la mente contiene impressioni che hanno natura accidentale e transeunte, ossia non necessaria e permanente – ad esempio l’essere prima ‘verde’ e poi ‘rossa’ della stessa mela –, ritiene che tali accidenti debbano per forza essere sostenuti da una sostanza che abbia all’opposto un certo grado di necessità e permanenza. Se qualcosa non può sussistere di per sé e tuttavia sussiste, allora deve sussistere per altro, e questo altro esiste necessariamente. Questa inferenza basata sul principio di causalità, ovviamente, perde ogni valore una volta riconosciuto che il principio stesso è soltanto una congettura. La seconda, invece – ma si tratta, come detto, di due dimensioni complementari – è legata al modo in cui le impressioni si presentano alla mente. Se si prende l’idea di ‘casa’ (magari la propria), si può notare come al fondo non si tratti altro che di un gruppo di percezioni simili che si presentano assieme ad intervalli di tempo intermittenti. Sono presenti quando usciamo di casa, scompaiono mentre siamo lontani, e ricompaiono quando torniamo di nuovo. Poiché in occasioni diverse, in intervalli di tempo diversi, si presentano gruppi di impressioni molto simili tra loro, la mente pensante le identifica e ne presuppone l’esistenza permanente anche quando non siano effettivamente presenti. Anche in questo caso si tratta di una congettura, di una credenza fideistica priva di un vero fondamento razionale.

     L’opera compiuta da Hume si può riassumere in brevi considerazioni: ha dimostrato come l’esperienza non sai altro che un insieme di fatti, ai quali viene accordata una regolarità e una struttura razionale solo in forza di una fede; ha operato una radicale riduzione della sfera d’influenza della ragione e, di conseguenza, della realtà su cui si possa costituire un’epistéme – una scienza; ha definito come priva di valore razionale qualsiasi credenza metafisica e, parimenti, qualsiasi conoscenza scientifica. Ovviamente vi è una differenza tra metafisica e scienza: quest’ultima ha almeno un’utilità pratica. In altre parole, sebbene Hume sancisca che principi come la causalità siano applicabili solo surrettiziamente alla realtà, allo stesso tempo riconosce come per gli esseri umani sarebbe impossibile vivere facendo altrimenti (immaginate di convincervi che ogni qual volta uscite di casa, la vostra casa cessi di esistere!). Tutto questo lavoro sarà l’imprescindibile propedeutica ad una vera e propria rivoluzione filosofica compiuta dal più noto ‘allievo’ di Hume: Immanuel Kant.

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