Nessun altro ente ha esistenza autonoma, e l’Io è l’unico che si autopone, e pone ogni altra cosa.
La pubblicazione della Critica della Ragion Pura (1781) ‒ presentata nell’articolo apparso nel precedente numero della presente rivista ‒ [1] non aveva suscitato nel mondo accademico il dibattito sperato. Bisogna attendere il biennio 1786-7 per trovare la prima risposta pubblica all’opera di Kant, ed in particolare si tratta delle Lettere sulla filosofia kantiana [Briefe über die Kantische Philosophie] [2] scritte dall’ex gesuita Karl Leonhard Reinhold (1757-1823). Primo interprete della Critica, Reinhold ritiene che essa sia incompleta, e si assume quindi l’incarico di portarla a compimento. Come il gentile lettore ricorderà, il punto focale del sistema gnoseologico kantiano era l’intrascendibilità dell’Io penso, il quale però aveva la capacità di formare delle rappresentazioni della cosa in sé (gli enti concreti in re); tuttavia rimaneva insoluto il problema del rapporto tra questo noumeno e la percezione del soggetto.
Per Reinhold è necessario istituire un nesso di causalità tra i due: la cosa in sé è la causa della rappresentazione che il soggetto può farsi di essa. Se questa soluzione sembra in qualche modo chiarire il punto, altri interpreti coevi non sono per nulla concordi. Tra loro soprattutto Friedrich Heinrich Jacobi (1743-1819), noto per la sua difesa della religione e della fede in opposizione al razionalismo imperante del suo tempo. Jacobi è convinto che fede e ragione siano inconciliabili e visto che la seconda porta inevitabilmente al nichilismo – perché fonda la conoscenza e la comprensione del mondo sul principio di ragion sufficiente che riduce ogni cosa ad una concatenazione meccanica senza principio né fine – ritiene sia meglio affrontare il «salto mortale» e rifugiarsi nella fede in un Dio creatore e legislatore dell’universo. Naturalmente questa sua posizione lo spinge ad affrontare anche il sistema kantiano, il quale era ormai un punto di riferimento per la filosofia tedesca del tempo, e nel 1789 pubblica l’opera David Hume sulla fede, o idealismo e realismo [David Hume über den Glauben, oder Idealismus und Realismus] [3] nella quale sferra un attacco dirompente. Jacobi ritiene che la pretesa kantiana di conoscere oggettivamente il mondo sia puramente illusoria. Infatti, argomenta, prima Kant ha ridotto ogni cosa a mero fenomeno, cioè a rappresentazione creata dal soggetto per il soggetto, puro idealismo; poi, per salvare il realismo, ha postulato la cosa in sé, che garantirebbe la reale esistenza degli enti di cui l’Io penso produce in sé le rappresentazioni. Ma non può istituirsi alcun nesso causale tra l’Io penso e la cosa in sé (come invece sosteneva Reinhold), perché la causalità è una categoria che appartiene alla Ragione e quindi può essere applicata solo alle rappresentazioni. L’esistenza della cosa in sé è, pertanto, indimostrabile.
Anche Gottlob Ernest Schulze (1761-1833) propone, nella sua critica scettica al kantismo, la medesima argomentazione; approfondiamo questo tema che si dimostrerà fondamentale nel percorso che conduce all’idealismo. Per Kant la cosa in sé, in quanto non può essere carpita dal complesso sistema conoscitivo dell’Io penso, è inconoscibile; tuttavia, rimane il fatto che essa è almeno pensabile: infatti non solo si afferma l’esistenza di qualcosa che è per sua essenza al di là di qualsiasi possibile conoscenza, ma lo si definisce in base alle sue caratteristiche proprie: “cosa-in-sé”, “noumeno” (dal greco νοούμενον, nooúmenon, participio presente medio-passivo di νοέω, ossia “ciò che è pensato”). Tuttavia questa è una contraddizione in termini, perché in questo modo si sostiene che è pensabile qualcosa che non è possibile sottoporre al sistema conoscitivo del soggetto, che si conosce quale natura generale possiede ciò che per definizione non può essere conosciuto; quindi la cosa in sé è allo stesso tempo conoscibile e inconoscibile, pensabile ed impensabile. Proprio su questa problematica si innesta il pensiero proto-idealistico del filosofo di Rammenau che ora andremo ad analizzare.
Johann Gottlieb Fichte (1762-1814) ritiene che la cosa in sé non sia solamente una contraddizione in termini, ma un ingiustificabile residuo dogmatico che contrasta con l’impostazione essenzialmente rivoluzionaria del criticismo kantiano. Pertanto, a suo parere, è necessario un deciso aggiustamento di tiro: l’attività rappresentativa è totalmente interna al soggetto, per questo l’esistenza del mondo esterno si deve dedurre solamente da un’analitica di ciò che è presente nel soggetto stesso – non colta direttamente dall’esterno né tanto meno postulata. In questo modo anche il problema gnoseologico dev’essere riformulato: non bisogna chiedersi come si fa a conoscere gli oggetti esterni, ma piuttosto come il soggetto produce le proprie rappresentazioni. Il soggetto, è sostanzialmente attività produttrice di rappresentazioni, e l’‘Io sono’ è all’origine di ogni pensare e rappresentare. Si potrebbe dire che viene così ribaltata la nota massima di Cartesio, da ‘cogito, ergo sum’ (penso, dunque sono) a ‘sum, ergo cogito’ (sono, dunque penso).
L’opera nella quale Fichte presenta per la prima volta queste sue riflessioni si intitola Fondamento dell’intera dottrina della scienza [Grundlage der gesammten Wissenschaftslehre] (1794); in questo testo compare l’idea secondo cui, a differenza dell’impostazione classica, è la filosofia che deve fondare la logica e stabilirne i principi, i quali non potranno che essere ricavati dagli atti più originari e fondamentali tra quelli utilizzati dalla coscienza nel suo operare. In questo modo logica e metafisica vengono unificate perché questi principi riguardano sia la struttura formale della coscienza, sia i contenuti possibili del sapere. Ma quali sono questi principi, e come si ricavano analiticamente dall’Io sono?
Primo principio: l’Io assoluto
Nella logica classica il primo principio che ha valore assoluto è quello di identità, o più precisamente di autoidentità: A = A. Per Fichte, però, questo principio lungi dall’essere l’originario, nasconde invece in sé un postulato implicito che rimane infondato. Nel dire che A è in identità con A, bisogna assumere che A si dia, o meglio sia posto, altrimenti il principio rimane una pura teorizzazione ipotetica. Peggio, non ci garantisce affatto che le conclusioni che traiamo siano vere, almeno nel senso di descrivere correttamente il mondo. Si dovrebbe quindi modificare la formula in questo modo: se A, allora A = A; che varrebbe a dire: se A si pone, allora A, una volta posto, è identico a sé. La domanda è: come si pone A? Dal momento che l’attività di porre le rappresentazioni appartiene all’Io sono, allora è l’Io sono che deve porre A. Tuttavia si potrebbe anche presentare un giudizio come il seguente: “un cannolo balbuziente è un cannolo balbuziente”; il problema è che nella realtà (in re) non esistono i ‘cannoli balbuzienti’ (eccetto che nella mente di Luna e Xenophilius Lovegood), pertanto questo giudizio risulta vuoto di contenuto. Vi è un solo giudizio che non è mai né ipotetico né vuoto: Io = Io. Infatti l’esser posto dell’Io non è una conseguenza ma è la condizione sine qua non di ogni rappresentazione, della logica e del pensiero stessi: nessun altro ente ha esistenza autonoma, e l’Io è l’unico che si autopone, e pone ogni altra cosa. [4] In questo senso il principio di identità nella formula “Io è Io” vale incondizionatamente, in modo assoluto, ed esprime anzi la pura attività dell’Io. Alla base di ogni attività umana e di ogni sapere vi è l’autocoscienza dell’Io, il principio per il quale: l’Io pone se stesso. Siamo qui, per il sistema fichtiano, nel campo della Ragione.
Secondo principio: il Non-Io.
Il secondo principio della logica classica è quello di non-contraddizione, che viene riassunto da Fichte con la formula: «la negazione di A non è uguale ad A» (‒ A non è A). Semplificando il ragionamento si potrebbe dire che –A è in opposizione ad A, ma l’atto di opporre non si può dedurre con un’argomentazione dal puro porre. La stessa posizione di A implica necessariamente l’atto dell’opporre, perché nel suo porsi A si determina, e il modo proprio della determinazione è l’opposizione di ciò che è posto rispetto a tutto ciò che non è posto. In questo senso, il principio A=A implica immediatamente che A è diverso da tutto ciò che non è A, e quindi da –A. Vale ovviamente anche il viceversa, ossia la posizione di –A implica che sia posto anche A, poiché per poter negare A devo prima porre quell’A che intendo negare. Sostituendo ad A l’Io, risulta che l’Io stesso, ponendosi, pone anche il Non-Io come ciò che gli è opposto, e quindi gli atti del porre e dell’opporre sono entrambi attività proprie dell’Io. [5] Pertanto il principio di non-contraddizione si deriva analiticamente dall’attività dell’Io, il quale pone se stesso e pone, immediatamente, il proprio opposto, vale a dire il Non-Io. Il campo, qui, è naturalmente quello dell’Intelletto.
Terzo principio: l’Io empirico.
Sorge ora un dilemma spinoso: Quando l’Io pone il Non-Io, i due sono compresenti o si annullano a vicenda? Ad un primo sguardo sembrerebbe sensato rispondere che i due si annullano, infatti se la posizione di A implica immediatamente la posizione di ‒A, ossia la sua negazione, allora ciò che rimane è esattamente nulla (se io creo un vaso e nell’atto stesso di crearlo lo distruggo, il vaso non c’è). Eppure, in questo caso, visto che si parla dell’Io, se ciò fosse vero non sarebbe possibile nemmeno porsi questa domanda: se l’Io nel porsi allo stesso tempo si negasse, non vi sarebbe Io, quindi coscienza, quindi pensiero – né mondo. Bisogna pertanto che la posizione e l’opposizione coesistano, vale a dire che per potersi dare opposizione tra l’Io ed il Non-Io, poiché entrambi posti dall’Io, dev’essere mantenuta l’unità della coscienza. Il ragionamento di Fichte è molto complesso e sottile e non può essere qui esplicitato interamente; basti dire che nell’atto del porre il Non-Io, l’Io deve rimanere autocosciente, deve porsi come quell’Io che sta ponendo il non Io. L’opposizione, pertanto, non potrà mai riguardare l’Io assoluto (totale) e il Non-Io assoluto, ma solo parti di essi. In questo senso è necessario che entrambi siano divisibili, così che l’Io opponga sempre e solo una parte di sé al Non-Io corrispondente, mentre continua a porre tutto il resto di sé. In altre parole i due principi si limitano a vicenda, e costituiscono sempre e solo una parziale negazione reciproca. Non esiste una soggettività totalmente opposta al mondo, ma solo una soggettività finita, limitata, che entra in relazione di volta in volta con una parte altrettanto limitata e finita del mondo. [6] Esistono quindi diverse ‘dimensioni’ dell’Io e del Non-Io. Per semplificare si consideri questa piccola schematizzazione:
Io assoluto: è la condizione di possibilità di ogni conoscenza;
Io empirico: è il soggetto conoscente, cioè un’entità reale;
Io divisibile: è l’umanità, che si divide in unità di singoli individui;
Non-Io divisibile: è la natura intesa come insieme di corpi distinti.
L’Io empirico, come soggetto conoscente, conosce il Non-Io, cioè gli enti del mondo, grazie al continuo e costante rapporto di reciproca limitazione che intercorre tra quest’ultimo e l’Io assoluto. Questo rapporto è di natura dialettica, che per Fichte significa «sintesi degli opposti per mezzo della determinazione reciproca». Nel porre il Non-Io, l’Io innesca una tensione volta alla ricostituzione dell’unità (l’Io, in quanto colui che pone, vorrebbe assimilare in sé anche ciò che egli stesso ha posto come suo opposto), e tenta l’impresa attraverso l’atto conoscitivo, che in qualche modo gli consente di riappropriarsi del Non-Io che gli sta di fronte come oggetto. Da momento, però, che il soggetto conoscente è quell’Io empirico finito e limitato, la sua opera di conoscenza non è mai totale e simultanea ma sempre parziale e dilazionata nel tempo. Per Fichte, questa eterna tensione conoscitiva è il desiderio di Libertà.
È interessante, in conclusione, notare due cose: innanzitutto qui per la prima volta si incontra una dialettica che si compone di tre elementi (mentre classicamente era sempre stata dicotomica), ed in secondo luogo la cosa in sé viene del tutto abbandonata in quanto non più necessaria per costituire la gnoseologia. Il realismo viene accantonato in favore dell’idealismo speculativo – dove la realtà non è altro che il prodotto della dialettica innescata dal porre sé dell’Io, o dalla sua autocoscienza. Ha inizio una nuova epoca per la filosofia, che sarà segnata dall’imponente opera del filosofo di Stoccarda, G. W. F. Hegel.
[2] K. L. Reinhold, Lettere sulla filosofia kantiana, Trad., Intr. e note di Paolo Grillenzoni, EduCatt Università Cattolica, Milano 2005.
[3] F. H. Jacobi, David Hume sulla fede. Realismo e Idealismo, Trad. It. di N. Bobbio, De Silva, Torino 1948.
[4] «Quindi il porsi dell’Io per se stesso è la pura attività di esso — L’Io pone se stesso ed è in forza di questo puro porsi per se stesso; e viceversa: l’Io è e pone il suo essere in forza del suo puro essere — Esso è in pari tempo l’agente ed il prodotto dell’azione; ciò che è attivo e ciò che è prodotto dall’attività; azione e fatto sono una sola e medesima cosa; perciò l’Io sono è espressione di un atto ma anche del solo atto possibile, come si vedrà in tutta la dottrina della scienza». J. G. Fichte, Fondamenti dell’intera dottrina della scienza, Id. La dottrina della scienza, tr. it. di Adriano Tilgher, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 79.
[5] « […] la forma dell’opporre è così poco compresa nella forma del porre, che le è anzi piuttosto opposta. L’atto d’opporre si produce perciò senza alcuna condizione ed assolutamente. ‒ A, come tale, è posto assolutamente perché è posto.
Perciò tra gli atti dell’Io si presenta un atto di opporre, con la stessa certezza con cui, fra i fatti della coscienza empirica, si presenta la proposizione: ‒A non = A; questo opporre è, riguardo alla sua pura forma, un atto assolutamente possibile, indipendente da ogni condizione e non ha come base alcun principio superiore.» J. G. Fichte, Fondamenti dell’intera dottrina della scienza, op. cit. p. 84.
[6] «L’Io deve essere identico a se stesso e tuttavia opposto a sé medesimo. Ma esso è identico a se stesso nei riguardi della coscienza; la coscienza è unica, ma in questa coscienza è posto l’Io assoluto come indivisibile; l’Io, invece, al quale è opposto il Non-io, è posto come divisibile. Quindi l’Io, in quanto gli è opposto un Non-io, è esso stesso opposto all’Io assoluto. Così, dunque sono unificate tutte le opposizioni senza pregiudizio per l’unità della coscienza; e questa è anche la prova che il concetto stabilito era quello giusto.» J. G. Fichte, Fondamenti dell’intera dottrina della scienza, op. cit. p. 91.