Cimiteri

Arvid
Letteratura

È in quel preciso istante che si esce dal tempo, che ci si sente vivi in compagnia dei morti

 

La vita scorre, ritmata dal tempo, e se esso è intrinsecamente diverso per ogni essere umano ‒ a causa del luogo geografico, l’età, la cultura e per moltissimi altri fattori ‒ allora si può dire che il tempo è soggettivo. Eppure, capendo l’importanza della misura della vita, venne stabilita un’unità univoca più o meno universale, oggettiva, portando così l’essere umano a trascinarsi senza sosta, sentendo nelle viscere un ticchettio costante, uguale, quel ticchettio della vita che passa, che si consuma. Ma c’è un luogo in cui il rumore non può essere sentito, o meglio, viene ignorato dal nostro io: tutto sembra fermarsi, o quanto meno muoversi più lentamente, nei cimiteri.

I cimiteri sono un deposito, una discarica per cose che non funzionano più, eppure appaiono ai miei occhi il luogo ideale per dimenticare ogni cosa: girando tra i dimenticati, dimentico.

Non ho mai amato cercare i corpi in decomposizione delle persone che ho incontrato in vita, esse più non sono. I cimiteri costruiti per vanagloria da umani idolatri: così ci siamo ribellati al castigo di Dio. «Mangerai il pane con il sudore del tuo volto, finché tu ritorni nella terra da cui fosti tratto; perché sei polvere e in polvere ritornerai», mai Dio avrebbe pensato che avremmo fatto di tutto per non ritornare terra, che ci saremmo rinchiusi per la vanità d’essere immortali!

Ora sono l’idolo di me stesso, né Dio né pagano, ateo. Non trovo conforto nell’aggirarmi tra le tombe, solo un misto di curiosità, indifferenza e compiacimento; solo l’uomo senza scopo sarà uguale a quello che lotta per tutta una vita, ma compreso tutto questo il cimitero perde la sua sacralità e diviene un luogo ideale per lasciar scorrere il tempo.

Ho deciso di vagare per il mondo, tra le tombe dei morti a me sconosciuti. Non dialogo con loro, osservo solo il nome, spesso composto da caratteri indecifrabili: erose dal tempo la forma e la memoria. Forse un giorno riuscirò a intravedere il mio nome, scomposto in suoni primitivi ormai dimenticati.

La curiosità porta l’uomo alla follia: nacqui folle e divenni curioso. Così in ogni nazione ricerco la pace dei morti ed osservo le composizioni umane in ricordo dei defunti: dalle creazioni più maestose alle più fini, e a quelle dei popoli che adagiano i morti ai piedi d’un albero sacro, i cui corpi in decomposizione, le cui ossa, pervadono l’io più nascosto che ricostruisce lentamente frammenti del proprio corpo nelle carni putrefatte.

I cimiteri pulsano di vita, di colori, ed anche essi sono lentamente soggetti al tempo: per quanto sembrino eterni, non appaiono mai uguali ed alcuni sono fatti per la notte. È il caso di un cimitero nella prefettura di Wakayama, le cui tombe sono parte integrante della natura, e nella notte oscura, senza dei, si può vagare tra umide lapidi, illuminate da flebili lucciole che appaiono e scompaiano nella mistica danza dell’accoppiamento in cui divengono fuochi fatui. E se la vista è ingannata, l’udito sente un lieve fruscio, un crepitio, un sussurrio che lentamente diviene mormorio; così veniamo derisi dal nostro cervello o forse assistiamo ad uno Hyakki Yagyo[1] unico.

All’improvviso

Rapidamente come la mia memoria

Gli occhi si riaccesero

Di cellula vitrea in cellula vitrea

Il cielo si popolò di un’apocalisse

Vivace

E la terra piatta all’infinito

Come prima di Galileo

Si copri di mille mitologie immobili

Un angelo di diamante spezzò tutte le vetrine

E i morti mi si avvicinarono

Con facce dell’altro mondo

Ma i loro volti e i loro atteggiamenti

Divennero presto meno funerei

Il cielo e la terra perdettero

Il loro aspetto fantasmagorico[2]

Il cimitero è un luogo nel quale ricercare i nostri molteplici io, formati da un passato sconosciuto ed un presente incerto; l’oggetto è differente per ogni singola persona e se la solitudine può essere migliore del dolore, la proiezione di essa, nel mio caso, si congiunge all’ombra d’una lapide.

Sono state le parole d’un poeta vivo a farmi comprendere parte della mia ricerca, quella che va oltre la curiosità etnologica:

La maggior parte dei morti tace. Non dice più niente. Ha – letteralmente – già detto tutto. Per i poeti non è così. I poeti continuano a parlare. A volte si ripetono. Succede ogni volta che qualcuno legge o recita una poesia per la seconda o per la centesima volta. Parlano anche ai non nati, a chi non viveva ancora quando hanno scritto quel che hanno scritto.

[…]

Mentre stiamo lì in piedi davanti alle loro tombe siamo circondati dalle loro parole. La persona non c’è più, ma ci sono ancora le parole, i pensieri. Il minimo che si possa fare è ricambiare un pensiero. Ogni visita alla tomba di un poeta è un dialogo in cui le risposte precedono tutto quanto noi possiamo dire. È un paradosso. Qualcosa è stato detto, ma non c’è stata nessuna domanda. Siamo venuti qui per manifestare il nostro accordo, per essere in prossimità delle parole già pronunciate. Chi ha scritto quelle parole era già morto, ma le parole vivevano ancora. Poter recitarle ad alta voce, come le pronunciava l’altro. Per questo sei venuto qui per ascoltare di nuovo quelle parole nel silenzio della morte.[3]

Ho ascoltato queste parole che prendono forma nella mente, dapprima solitarie, timide, si compongono lentamente lettera per lettera; poi si fanno più veloci ed infine prendono il sopravvento, ed inermi non si può che esserne travolti. È in quel preciso istante che si esce dal tempo, che ci si sente vivi in compagnia dei morti.

Così fui travolto davanti alla tomba di Keats, dove rimasi a lungo senza sentire nemmeno il battito del mio cuore; così provai sconforto alla vista della tomba di Pound, quasi cancellato dalla memoria da coloro che non pensano, da coloro che gli tolsero la dignità nella vita e fecero lo stesso nella morte.

Da allora vago, senza meta, illudendomi di sfuggire al ticchettio della vita, trovando rifugio tra i morti, e fermandomi davanti alla lapide d’un fu uomo che con parole d’allora comunicò al mondo lo stesso dolore che provo anch’io. Così mi rifugio tra i miei simili aspettando che il giorno passi. Sperando che non ci sia un domani attendo il dolce freddo abbraccio di una quasi leggera morte.

Arvid.

Ho commesso il peggiore dei peccati

che un uomo può commettere. Non sono stato

felice. Mi travolgano e disperdano,

spietati, i ghiacci dell’oblio. I miei

mi avevano creato per il gioco

azzardato e stupendo della vita,

Per la terra, per l’acqua, l’aria, il fuoco.

Li ho delusi. Non si compì la loro

giovane volontà. Non fui felice.

Mi applicai alle caparbie simmetrie

dell’arte, che congegna vacuità.

Ereditai audacia. Non fui audace.

Non mi abbandona. Mi sta sempre accanto

l’ombra d’essere stato un disgraziato.[4]

[2] Guillaume Apollinaire, La casa dei Morti, Alcools

[3] Cees Nooteboom, Tumbas

[4] Jorge Lui Borges, Rimorso

Illustrazione diValentina Cima

Ti è piaciuto l’articolo? Lascia qui la tua opinione su La Livella.

Did you enjoy the article? Leave here your feedback on La Livella.

Share on facebook
Facebook
Share on twitter
Twitter
Share on linkedin
LinkedIn
Share on email
Email