La carne sintetica viene coltivata a partire dalle cellule staminali degli animali che vengono successivamente fatte moltiplicare in bioreattori ‒ un processo che dura dalle due alle quattro settimane.
Il 16 novembre scorso la Food & Drug Administration (Fda), l’ente governativo statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici, ha dichiarato il pollo sintetico della startup Upside Foods «sicuro per il consumo umano». Si tratta del primo passo verso la commercializzazione di carne sintetica ottenuta in laboratorio, in assenza di macellazione di animali vivi. Ora negli USA mancano solo due passaggi normativi affinché la carne “coltivata” possa essere distribuita al pubblico: gli impianti produttivi di Upside Foods dovranno superare l’ispezione da parte del dipartimento dell’Agricoltura e gli alimenti dell’azienda dovranno ricevere l’etichetta che ne certifica l’avvenuta ispezione.
Come si realizza la carne in laboratorio? La carne sintetica viene coltivata a partire dalle cellule staminali degli animali che vengono successivamente fatte moltiplicare in bioreattori ‒ un processo che dura dalle due alle quattro settimane. Per capire la portata innovativa di questa invenzione basti considerare che le cellule di un singolo pollo consentono la coltivazione di una quantità di pollame che normalmente proverrebbe dalla macellazione di migliaia di centinaia di esemplari.
In linea generale, la necessità di diminuire il consumo di carne animale deriva non solo da un’esigenza etica nei confronti della sofferenza di altri esseri viventi, ma anche da problematiche ambientali. Come è ormai risaputo, il consumo intensivo di prodotti animali è incompatibile con la crisi climatica in essere; la filiera industriale legata all’allevamento rappresenta uno dei settori più impattanti rispetto all’emissione di gas climalteranti, essendo responsabile di un terzo delle emissioni di gas serra.
Le questioni controverse in questo senso sono molteplici; sia lato ambiente tra deforestazioni, emissioni, consumo d’acqua e suolo, per citarne alcune, sia lato salute umana per la crescita del rischio di antibiotico resistenza.
Oggi le startup attive in questo settore sono circa un centinaio: solo Singapore consente la vendita di carne coltivata, mentre a Tel Aviv l’azienda di tecnologia alimentare Supermeat ha inaugurato The Chicken, una test kitchen in cui è possibile assaporare il pollo coltivato sotto la propria responsabilità.
Le cellule di pollo inserite nei fermentatori hanno la capacità di moltiplicarsi all’infinito grazie ad un’alimentazione a base di acqua, carboidrati, proteine, aminoacidi, vitamine e zuccheri.
Tutto ciò però richiede dei processi produttivi molto complessi e costosi: dopo aver isolato le cellule staminali tramite biopsia dall’animale vivo o da un pezzo di carne fresca, i diversi tipi di cellule vengono isolate e inserite nel bioreattore in cui possono crescere e riprodursi. Alla base del processo sta la tecnologia di coltivazione cellulare sviluppata dall’industria farmaceutica per la creazione, ad esempio, di anticorpi e vaccini.
La procedura, oltre ad essere molto costosa, richiede anche un gran dispendio di energia per il mantenimento di una temperatura costante all’interno del bioreattore che consenta la proliferazione delle staminali.
La questione energetica e di sostenibilità ambientale, unitamente al tema della sicurezza, rappresentano i temi su cui poggiano le principali argomentazioni a sfavore delle nuove tecnologie di coltivazione della carne. Uno dei principali problemi con ripercussioni ambientali relativo agli allevamenti intensivi è la produzione di gas serra; tuttavia, anche i macchinari utilizzati per la coltivazione della carne ne producono in quantità tali che uno studio dell’Università di Oxford del 2019 ha previsto che la coltivazione di carne in bioreattori potrebbe avere un impatto più pesante sull’ambiente rispetto alla carne di allevamento.
E in Italia? Nel Belpaese l’idea di carne sintetica non è stata accolta con favore, raccogliendo i ‘no’ del governo, di Coldiretti e del movimento Slow Food, associazione internazionale no-profit impegnata nel ‘ridare valore al cibo’ in un sistema armonico che coinvolga produttori, ambiente ed ecosistemi. Alla base del ‘no’ ci sono non solo motivazioni legate alla spesa energetica e alla sostenibilità ambientale, ma anche il timore che questa nuova tecnologia alimentare costituisca, tra le altre cose, un mezzo diretto per l’omologazione alimentare, capace di cancellare il legame del cibo con la tradizione e la cultura dei luoghi cui fa riferimento. Secondo Slow Food, gli stessi obiettivi cui si tende attraverso la coltivazione di carne andrebbero invece perseguiti attraverso il sostegno ai piccoli produttori locali rispetto agli allevamenti intensivi, e attraverso la rimodulazione della dieta carnivora in favore di un’alimentazione che favorisca le proteine vegetali al posto di quelle animali.