Canta anima mia

Friedrich Nietzsche

Thomas Masini
Filosofia

Tutto eternamente ritorna: ogni cosa divenuta passato ritorna come futuro e come presente, e su ogni cosa la Volontà può esercitare la propria potenza.

     Nel corso di questa nostra breve ‘storia della filosofia’ siamo giunti a parlare di una delle figure più emblematiche del pensiero filosofico contemporaneo: Friedrich Nietzsche (1844-1900). Nell’ideale albero genealogico che lega i filosofi, potremmo indicare in Nietzsche un allievo di Schopenhauer, sebbene questa definizione rischi di fuorviare rispetto alla prorompente peculiarità di questo pensatore. Come vedremo a breve, il filosofo di Röcken ha impresso alla filosofia una direzione che persiste fino ad oggi.

 

     Per tratteggiare il nucleo del pensiero ontologico di Nietzsche (e già quest’espressione è poco corretta), è necessario partire da quello che, per il filosofo, è il punto fondamentale: l’essere è in divenire. Non si vuole qui intendere la semplice constatazione che le cose vanno e vengono, ma ci si riferisce alla radicale mutevolezza della realtà, al suo inesausto nascere e morire, al continuo e costante cambiamento che distrugge ed annienta ciò-che-è per far posto a ciò-che-sarà. Questo movimento travolge ogni cosa: montagne, piante, animali, città, regni e persone. Nulla è al sicuro, men che meno il misero essere umano ‒ che i greci dei tempi di Omero chiamavo giustamente βροτός (“brotòs”), il mortale ‒ il quale è destinato a perdere ogni cosa, persino la propria vita. Di fronte a tale terribile constatazione, scrive Nietzsche, gli esseri umani, troppo deboli per sostenere questo peso, hanno cercato in ogni modo di porsi al sicuro, di erigere roccaforti e bastioni che li proteggessero dall’assalto del divenire. E proprio a questo servono le grandi architetture religiose, morali, artistiche, scientifiche e filosofiche: nella loro ricerca della Verità assoluta, di quella Verità innegabile che è da sempre e sarà per sempre, che non patisce fine o cambiamento, esse cercano di dimostrare che in mezzo all’oceano del cambiamento vi è l’isola dell’immutabile, dell’eterno, sulla quale noi, poveri naufraghi destinati alla morte, possiamo trovare riparo. Tutte queste discipline e le loro ‘verità’ sono pertanto dei tentativi di sottrarsi all’angoscia del divenire, del cambiamento, ed in quanto tali non sono affatto ‘Verità’ ma semplici finzioni: hanno il carattere fittizio delle storielle che raccontiamo ai bambini quando hanno paura dell’oscurità sotto al loro letto. Certo, queste costruzioni hanno il carattere della logicità, della scientificità, della razionalità, ma è proprio questo il punto: poiché l’uomo non potrebbe vivere nella costante consapevolezza di essere immerso in un divenire caotico e privo di un fine o di uno scopo ultimo, tutto di lui, dal suo corpo alla sua mente, dalla sua carne alla sua razionalità, sono costituite per creare queste rassicurazioni fittizie e convincersi che si tratti della Verità. L’autoinganno è un elemento costitutivo dell’essere umano.

     Emerge qui il secondo tratto saliente del discorso di Nietzsche: non si dà il fatto in sé, ma solo la sua interpretazione. Di tutto ciò che accade, della realtà e dell’essere, non si danno fatti, ma appare solo la loro interpretazione. Anche l’idea che dietro all’atto interpretativo debba esistere il fatto reale, ontologico, e parimenti che debba esistere qualcuno che lo interpreta non sono fatti, ma interpretazioni. In altre parole, ciò che si dà è l’interpretazione, la quale non si dà come fatto ma come, appunto interpretazione. Non vi è il darsi di qualcosa che non sia l’interpretazione stessa, la quale è a sua volta interpretazione. Ma all’origine dell’interpretazione vi è la Volontà, quella volontà di non riconoscersi come meri oggetti passivi di fronte all’assalto del divenire, la volontà di dominare, in qualche modo, il cambiamento perpetuo e privo di scopo che costituisce l’esistenza. Questa volontà vuole, quindi, essere potente rispetto al divenire: vorrebbe dominarlo piuttosto che esserne dominata, e per questo la sua definizione più corretta è Volontà di potenza. Quest’ultima è l’agente che compie l’interpretazione, essa produce sia tutte le architetture illusorie che hanno cercato e cercano di arginare la marea del divenire (religione, morale, arte, scienza, filosofia etc.), sia quella forma di angoscia di fronte al loro fallimento: il Nichilismo.

  1. Il nichilismo come stato NORMALE

  2. Nichilismo: manca il fine; manca la risposta al «perché?»; che cosa significa nichilismo? ‒ che i valori supremi si svalorizzano. [1]

Di fronte alla constatazione che tutti i rimedi tentati sono stati vani, di fronte all’evidenza che tutte le architetture teoriche costruite dall’umano per dare un senso al divenire non sono altro che finzioni, la Volontà di potenza cade nel Nichilismo: riconosce il crollo di tutte le difese che aveva eretto: tutti i fini ipotizzati sono falsi, tutte le risposte ai perché sono autoinganni, tutti i valori supremi non hanno valore; Dio è morto, e noi  lo abbiamo ucciso.

L’uomo folle balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: «Dove se n’è andato Dio?» gridò «ve lo voglio dire! L’abbiamo ucciso ‒ voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strofinare via l’intero orizzonte? Che mai facemmo per sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? ‒ Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? […] Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? […] Non ci fu mai un’azione più grande ‒ e tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, a una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!». [2]

     Dio rappresenta l’immutabilità, l’inamovibilità, l’eternità, tutto ciò che l’umano ha sempre ricercato, tutte quelle illusioni fittizie che si è costruito per non soccombere di fronte all’angoscia del divenire. Ma quando la Volontà di potenza giunge ad una superiore consapevolezza di sé, scopre che tutto questo deve venire meno: Dio è morto, Dio doveva morire, perché Dio e la Volontà di potenza non possono coesistere. La Volontà di potenza vuole essere potente, vuole in qualche modo dominare l’essere, modificarlo, cambiarlo in base alle sue esigenze: dirigere la vita delle cose ed il corso degli eventi. Ma se esiste qualcosa di immutabile, di inamovibile, di eterno, ecco che la Volontà di potenza si trova impotente: vi è qualcosa che essa non può cambiare, qualcosa che non può dirigere, qualcosa che le sfuggirà sempre e che la dominerà in quanto è ciò che permane da sempre e per sempre, è l’eterno che rimane nell’eterno divenire.  Dio, come tutti gli idoli immutabili, deve tramontare affinché la Volontà di potenza possa diventare atto totalmente dispiegato. Solo in questo modo potrà comparire quella nuova figura che la incarna nella sua forma più autentica; una razionalità diversa, un cervello diverso, un corpo diverso: dopo il crepuscolo degli idoli, all’alba comparirà l’Oltreuomo.

     Tutto gli artifizi creati per arginare il divenire sono storia del passato, Dio è storia del passato, quindi la Volontà di potenza può ora manifestarsi nella sua forma più libera e compiuta. Se non fosse che, come tutti sappiamo, Dio potrà pure essere ucciso, ma ha l’abitudine di risorgere. E difatti in qualche modo l’eternità ricompare proprio nella forma del passato, nella forma del «così fu». La Volontà di potenza ora può agire sul presente e sul futuro, ma il passato – in quanto compiuto – rimane così com’è stato: eterno ed immutabile. L’insoddisfazione della volontà è tangibile: proprio quando aveva riportato la sua più grande vittoria, si trova nuovamente sconfitta, impotente di fronte ai cadaveri che essa stessa ha contribuito a creare; l’eterno non è scomparso, ha solo traslocato sulla linea temporale. Urge un rimedio, una soluzione, non può essere questa la risposta definitiva! Ed un giorno, «seimila metri al di là dell’uomo e del tempo», il «pensiero più abissale» appare alla mente di Nietzsche.

Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni pensiero e sospiro, e ogni cosa indicibilmente piccola e grande della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione ‒ e così pure questo ragno e questo lume di luna tra gli alberi e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta ‒ e tu con essa, granello di polvere!» ‒ Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immane, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: «Tu sei un dio, e mai intesi cosa più divina!»? Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda che ti porresti ogni volta e in ogni caso: «Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?» graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun’altra cosa che quest’ultima eterna sanzione, questo suggello? ‒ [3]

Tutto eternamente ritorna: ogni cosa divenuta passato ritorna come futuro e come presente, e su ogni cosa la Volontà può esercitare la propria potenza. Sembrerebbe così, ad un primo sguardo, ma compare un nuovo problema. Se la volontà modificasse il passato che ritorna, a quel punto il passato che ritorna non sarebbe più il passato, ma il passato modificato dalla volontà. Poniamo, per semplificare, che il passato sia “x”. Se, al suo ritorno, la volontà lo cambiasse, diverrebbe “x1”, e in questo caso successivamente ritornerebbe “x1” e non più “x”. In questo modo “x” sarebbe nuovamente un passato che non ritorna, eternamente immutabile. La Volontà ha una sola strada per poter uscire da quest’impasse: deve volere che il passato ritorni esattamente così com’è stato; volere che eternamente ritorni l’uguale. Ma quanto è gravoso questo peso! Non si tratta semplicemente di accettare passivamente il fatto che tutto ritorna, ma volere con ogni fibra del proprio essere che tutto ritorni: ogni momento di felicità, di serenità, di pace; ogni istante di dolore, di malinconia, di noia; ogni più piccolo evento, tutto il tempo che si è vissuto e tutto quello che si è lasciato semplicemente passare, ogni scelta compiuta ed ogni errore poi rimpianto. Un peso capace di rendere folli, una volontà capace di cambiare il corpo e la mente, di far evolvere un essere umano in un Oltreuomo.

In questo modo, quel “NO!” che la Volontà pronunciava di fronte all’ineluttabilità del divenire travolgente che annienta ogni cosa, quello stesso “NO!” che aveva pronunciato di fronte all’inamovibilità degli idoli immutabili, diventa ora un “SÌ!” di fronte all’eterno ritorno di ogni cosa, il «sì gioioso alla vita» che l’afferma e la vuole nel modo più profondo e radicale possibile, che ne vuole ogni aspetto, in un’eterna danza di gioia.

Anima mia, io ti insegnai a dire ‘oggi’ come se fosse un ‘un giorno’ e ‘un tempo’, e a danzare al di sopra di ogni ‘qui’ e ‘lì’ e ‘là’ la tua danza circolare.

Anima mia, io ti redensi da tutte le penombre; io spazzai via da te polvere, ragni e luce crepuscolare.

Anima mia, io ti nettai della piccola vergogna e della virtù meschina, e ti convinsi a star nuda di fronte al sole.

Con la tempesta chiamata ‘spirito’, soffiai sui flutti del tuo mare; ne cacciai via tutte le nuvole, e strangolai perfino la strangolatrice chiamata ‘colpa’.

Anima mia, io ti conferii il diritto di dire no come la tempesta, e di dire sì come il cielo sereno dice di sì: immota come la luce, tu ristai, e vai ora attraverso tempeste di negazione.

[…]

Anima mia, tutto io ti ho dato e anche le mie ultime cose, e tutte le mie mani si sono svuotate per te: ‒ ordinarti di cantare, ecco, questa fu la mia ultima cosa!

Ordinarti di cantare ‒ e ora parla, di’: chi di noi due, adesso, ha da ringraziare? ‒ O meglio ancora: canta per me, canta anima mia! E lascia che io ringrazi! ‒

 

Così parlò Zarathustra. [4]

[1] F. Nietzsche, La Volontà di potenza, ed. curata e tradotta da Giorgio Brianese, Mimesis, Milano 2006, frammento 9[35], p. 74. 

[2]  F. Nietzsche, La Gaia Scienza, in La Gaia scienza e Idilli di Messina, intr. di Giorgio Colli, trad. di Ferruccio Masini, Adelphi, Milano 2018, §125 L’uomo folle, pp.  162-163.

[3]  Ivi, §341 Il peso più grande, pp. 248-249.

[4]  F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, intr. di Giorgio Colli, versione e appendici di M. Montinari, Del grande anelito, pp. 261-263.

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