. . . ciò che discende sulla terra come soffio di passione ritorna al cielo in spirito di contemplazione . . .
Innumerevoli volte mi sono trovata ad ammirare un’opera d’arte ed a restarne del tutto esclusa e, quasi fosse un’ostrica verace, il sospetto d’una perla spinge le mie unghie a forzarne l’apertura.
Questo accade perché spesso mancano gli strumenti interpretativi, la conoscenza del periodo storico in cui l’opera nasce o il pensiero ad essa contemporaneo.
Non immagino quante volte si perpetui lo stesso dramma alla Galleria degli Uffizi di Firenze che attrae annualmente milioni di visitatori.
Dal lato di chi scrive c’è la netta persuasione che persino una mente ben educata e di buona cultura abbia zone d’ombra e incespicamenti; in fondo sapienza che si accresce è accrescere in tormento [1], anche per le cose che non si sanno. Così, una delle opere più oniriche del rinascimento italiano potrebbe rivelarsi proprio come un’ostrica, per coloro i quali non abbiano bazzicato le aule di storia dell’arte.
Concediamoci allora un volo pindarico alla scoperta de La primavera di Sandro Botticelli, conservata proprio agli Uffizi e, per fortuna nostra, dipinta da una mente raffinata che ha regalato al mondo un viaggio attraverso la teoria dell’amore.
La primavera botticelliana è legata ad un passato pagano anche per merito della riscoperta dei temi e delle iconografie della mitologia greca che accompagna tutto l’arco del 1500 ‒ ed oltre. Questo non senza suscitare da un lato ammirazione e dall’altro sdegno, in particolare nella cultura cristiana dell’epoca. Ma la particolarità del dipinto si ritrova nel modo in cui il pittore fa dipanare il suo racconto. Come in una matrioska troviamo più livelli interpretativi: quanto propone è un vero gioco enigmatico di metamorfosi che ci rivela la sua vicinanza intellettuale con Ovidio, i cui scritti gli erano certamente noti. E, come leggendo l’arabo, entriamo nell’opera osservando ‒ sulla destra della tela ‒ tre personaggi che lo storico dell’arte Edgar Wind identifica come: Zeffiro, Chloris e Flora.
Quando flora il mondo di fiori adorna [2]
Zefiro, che viene raffigurato con le gote gonfie nell’atto di soffiare, è l’incarnazione della passione che, rivolta al personaggio al suo fianco ‒ Chloris ‒, produce l’effetto di una fuga dalle attenzioni evidentemente non desiderate. E nel pudore essa ricalca una sorte già nota, quella di Dafne, la quale per sfuggire dalla bramosia di Apollo chiese agli Dei di essere trasmutata in una pianta.Possiamo vedere la sua metamorfosi se ne osserviamo la bocca, dalla quale cominciano a nascere fiori che ricadono sulla terza figura di questa prima triade: una bellissima Flora. Prestando attenzione agli abiti, la distinzione tra le due figure è precisa: bianco quello di Chloris e disadorno; un tripudio d’ornamenti quello di Flora.
E sotto l’aspetto della favola ovidiana, la professione Zeffiro ‒ Chloris ‒ Flora rivela la familiare dialettica dell’amore E. Wind [3]
Abbiamo così delineato la prima fase delle Metamorfosi Dell’Amore che si manifestano nel giardino di Venere. Quest’ultima, che sovrintende a tutti questi accadimenti, si trova al centro dell’opera e sopra di lei Cupido bendato ed impetuoso fa da polo opponente alla sua stessa mano che manifesta un gesto d’avviso, di richiamo. Botticelli fa di Venere il centro di gravità attorno al quale ruota tutta l’opera: la dea cipride non è certo, qui, il mero simulacro delle pulsioni dissennate. Cupido, sopra di lei, punta la freccia al centro della triade femminile di sinistra: le tre Grazie, simbolo del triplice ritmo della generosità.
Qui Edgar Wind illumina la mitologia romana di una luce nuova, sulle orme di Seneca che rappresenta le tre dee vestite, simboli del triplice ritmo della generosità: offrire-accettare-restituire ‒ le loro mani intrecciate.
E continua affermando che nel pieno del neoplatonismo in cui Botticelli si colloca, la triade sia composta da Castità, Voluttà e Bellezza. Come Pico della Mirandola orgogliosamente mostrava nel suo medaglione delle tre Grazie (fig 2).
Chiara la natura delle Grazie, dobbiamo tornare a fare un passo indietro, a quel Cupido che, come già abbiamo detto, punta la freccia verso la Grazia di spalle e, se ben si osserva, quest’ultima è anche la meno adorna; infatti simboleggia la castità o, nella versione più antica, la Grazia che offre di spalle perché chi dona deve farlo con pudore. Essa è nelle mire di Cupido, e per questo nasce in lei l’istinto di muoversi. In direzione di chi? Della sorella di sinistra: Voluttà. E questa, si trasmuterà nella terza sorella, più quieta ma molto più inebriante: Bellezza. In un moto eterno che viene anche qui ripreso dalla danza in cerchio delle tre Grazie.
Un particolare che però non ci sfugge ci riporta a Castità che è il ponte con l’ultimo personaggio del quadro; sul lato sinistro della tela il suo sguardo si posa in cerca forse di una guida ed è destinato al più enigmatico tra i protagonisti del dipinto: Mercurio. In atteggiamento assorto verso un altrove non specificato sembra non curarsi di quanto accade alle sue spalle, ma, come abbiamo già detto, Sandro Botticelli era un artista che ben conosceva le correnti filosofiche del suo tempo e dunque non possiamo credere che il messaggero degli dei sia stato dipinto lì solo per ‘fare numero’. Meglio invece cercare una chiave di lettura che parta da quella mistica iniziata che, in quegli anni, costituiva il cuore di molte filosofie.
Così, sempre sotto la guida dello storico dell’arte Wind, ci inoltriamo alla comprensione profonda di Mercurio, il quale non è solo il messaggero degli dei ma anche il ponte tra loro e umani: in altre parole uno psicopompo. Si tratta di un dio sacro agli eruditi, che nel dipinto compie il gesto di spostare le nubi con un atteggiamento contemplativo così profondo da dare l’impressione di voler togliere, sì, le nubi che occludono lo sguardo, ma non del tutto; di voler rivelare, sì, il Mistero, ma mantenendo una certa opacità affinché la verità non accechi. Mercurio è guida delle Grazie perché egli è il simbolo della trascendenza al divino verso cui Castità è spinta dalla passione di cupido.
Ma in questo breve e lungo viaggio Mercurio ha un segreto in più da rivelarci: esso si allontana dal mondo per ritornarvi nei panni di Zeffiro, due figure simmetriche e complementari dell’amore.
ciò che discende sulla terra come soffio di passione ritorna al cielo in spirito di contemplazione.[4]
Un opera densa di significati, che pone al centro l’amore nella sua più vasta profondità, avrebbe forse meritato un titolo diverso. Quel che di certo possiamo dire è che molti indizi sono stati qui nascosti per coloro che amano il bello e per coloro che sono in viaggio alla ricerca di un tesoro che arricchisce l’anima e la vita.
[1] Qohélet, colui che prende la parola. A cura di Guido Ceronetti, Biblioteca Adelphi, 2001.
[2] Edgar Wind, Misteri pagani nel Rinascimento. Traduzione di Piero Bertolucci, Gli Adelphi,
[3] Edgar Wind, Misteri pagani nel Rinascimento. Traduzione di Piero Bertolucci, Gli Adelphi,
[4] Edgar Wind, Misteri pagani nel Rinascimento. Traduzione di Piero Bertolucci, Gli Adelphi,