Le aspettative nei confronti della transizione del Myanmar in questo periodo sono al loro apice: osservatori interni quanto esterni credono sia stata assolta la condizione ideale per la conducibilità democratica. Tuttavia, i risultati attesi sembrano lontani anni luce e le conquiste ben poche.
Le personalità insignite da almeno un Premio Nobel sono ospiti frequenti delle pagine di questa rivista. Solitamente le si possono trovare tra la sezione di letteratura e quella di filosofia; questo mese anche la sezione di attualità tratterà di una di loro: Aung San Suu Kyi. Premio Nobel per la Pace del 1991, Suu Kyi è una politica birmana, famosa per essere il volto della transizione democratica del Myanmar. Dire che si tratta di una personalità piuttosto controversa significa fare utilizzo di quella figura retorica nota a tutti come ‘eufemismo’. Infatti, se da un lato è stata a lungo acclamata – tanto in patria, quanto all’estero – come baluardo democratico del Myanmar, dall’altro ha raccolto negli ultimi anni numerose critiche e scontento, soprattutto per quanto concerne il trattamento della minoranza Rohingya all’interno dei confini birmani. Tutto ciò si colloca in un contesto politico e sociale tra i più complessi al mondo – il Myanmar appunto – in costante evoluzione e cambiamento, e dove nulla può essere dato per scontato, come dimostrato dal golpe militare del primo febbraio 2021.
In seguito all’ennesima presa di potere da parte dei militari – il Tatmadaw – Suu Kyi è stata deposta dalla sua carica di Consigliere di Stato e successivamente arrestata. Lo scorso 6 dicembre, a conclusione di un processo ritenuto una farsa dai più, è stata condannata a due anni di reclusione, per i crimini di sedizione e violazione di norme anti-Covid. A questa prima condanna ne è susseguita una seconda, nel gennaio di quest’anno, a quattro anni di carcere, sempre per violazione delle norme anti-Covid, questa volta affiancate alle accuse di possessione illegale di walkie-talkie.
Non è certo la prima volta che Suu Kyi viene accusata in modo pretestuoso per giustificare gli arresti – e le relative condanne – a cui è stata sottoposta nel corso degli anni. Ma se nei primi tempi la sua condizione creava grande sdegno ed indignazione, in questo periodo, sebbene tali sentimenti siano innegabilmente rimasti, si nota come vengano accompagnati da un atteggiamento leggermente più titubante e critico, legato indubbiamente alla gestione della questione della minoranza Rohingya da parte del precedente governo civile, guidato per l’appunto da Suu Kyi. Per rintracciare la causa di queste tendenze contrastanti è necessario fare qualche precisazione sul Paese in sé e la storia che lo caratterizza.
La prima cosa da far presente quando si tratta del Myanmar (nome coniato nel 1989, precedentemente il paese era infatti noto come Birmania) è la necessità di ragionare in maniera triangolare: un evento non ha un’unica causa, ma molteplici, e tanti sono gli interessi che vi si intrecciano. La seconda è che il Myanmar è stato una dittatura militare così a lungo che il potere di cui dispone l’élite alla guida dell’esercito è sedimentato profondamente nel tessuto sociopolitico, storico ed economico del paese. Oltretutto, è necessario sottolineare come perfino la transizione democratica avviata nel paese nel 2008 – quella che ha successivamente portato Suu Kyi alla guida del Myanmar – sia frutto di una “concessione” dalle alte sfere dell’esercito, e non di un processo innescato dal popolo. A ciò si aggiungono due ulteriori questioni. Il primo fattore da tenere a mente concerne una parte dell’economia del paese, più precisamente quella prettamente criminale. Il Myanmar, infatti, insieme a Laos e Cambogia, forma il cosiddetto ‘triangolo d’oro’, paradiso della coltivazione dell’oppio. Si stima infatti che l’80% dell’oppio proveniente dal sud-est asiatico venga proprio dalle colline del Myanmar, e venga principalmente raffinato in eroina. L’avere una grossa fetta del mercato della droga all’interno dei propri confini, quando il paese ha uno dei tassi di sviluppo umano più bassi al mondo, incide profondamente sulla sua situazione interna. La seconda questione riguarda la composizione etnica del paese, estremamente variegata. Tale differenziazione è stata facilmente manipolata sin dall’epoca coloniale, producendo come risultato un paese profondamente diviso e ricco di gruppi armati secessionisti con cui il governo è in conflitto dal giorno uno. La diversificazione etnica è da tenere a mente non solo per la presenza di un gran numero di gruppi armati nel territorio – che contribuiscono all’instabilità politica del paese e favoriscono lo strapotere del Tatmadaw – ma anche perché il trattamento di una di queste minoranze è ciò che ha gettato fango sull’immagine precedentemente immacolata di Aung San Suu Kyi.
Suu Kyi – figlia dell’eroe dell’indipendenza birmana, il Generale Aung San – assume il ruolo di baluardo della democrazia e dei diritti umani a seguito alle proteste dell’8-8-88, quando più di un milione di persone si riunirono a Yangon per contestare il regime militare e le sue politiche economiche scellerate. Per contrastare il suo crescente prestigio e mettere a tacere una voce influente che spinge per la democratizzazione, l’élite militare birmana la confina agli arresti domiciliari più e più volte nel corso degli anni, da cui sarà liberata solo nel 2010. Con le elezioni generali del 2015, Suu Kyi riesce finalmente ad entrare nell’esecutivo birmano, ritagliando per sé la carica di “Consigliere di Stato”, un ruolo creato ad hoc per ovviare la sua impossibilità di diventare presidente – posizione a lei costituzionalmente proibita, in quanto sposata con un cittadino straniero – e diventando la leader de facto del governo.
Le aspettative nei confronti della transizione del Myanmar in questo periodo sono al loro apice: osservatori interni quanto esterni credono sia stata assolta la condizione ideale per la conducibilità democratica. Tuttavia, i risultati attesi sembrano lontani anni luce e le conquiste ben poche. Anzi, in seguito all’apertura del paese all’esterno incominciano a filtrare realtà prima passate efficacemente in sordina, come la situazione della minoranza musulmana dei Rohingya. La popolazione Rohingya viene trattata da decenni come estranea al Myanmar, essendo al centro di una narrativa che la identifica come “pericolosa”. La concezione per cui i Rohingya vengono considerati come nemici-altri è ormai istituzionalizzata e profondamente intrecciata alla persistenza dell’élite politica ed intellettuale birmana. Ormai, è considerata come una questione di sicurezza ontologica: la presenza dei Rohingya come nemici all’interno dei propri confini va a solidificare la stabilità del paese e soprattutto quella della sua maggioranza buddista. Questo include anche Aung San Suu Kyi e il suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia (NLD). Come efficacemente sottolineato da Kyaw Zeyar Win,
Prendere di mira la comunità Rohingya come una minaccia alla sicurezza è diventata quindi l’opzione “corretta” e “razionale” per la maggior parte dei leader politici birmani, e per la società più in generale, rendendo lunga e complessa la strada verso il cambiamento.
Dunque, in questo frangente il governo civile democraticamente eletto di Suu Kyi non è stato affatto diverso da quelli militari che l’hanno preceduto anzi, segna con loro una continuità pressoché intatta. Si nota della continuità anche nell’influenza dell’apparato militare che, sebbene sia ora ritornato in un certo modo alla situazione pre-2008, durante la breve parentesi di governo civile non ha affatto visto il ridursi delle proprie prerogative.
È per questo motivo che parlando di Myanmar si fa riferimento al fenomeno dell’autoritarismo resiliente. Il governo autoritario di stampo militare è riuscito, grazie ai decenni in cui aveva completamente in mano le redini dello stato, a creare un sistema per il quale anche se vengono effettuate delle concessioni di tipo democratico – ad esempio elezioni multipartitiche e la possibilità di avere un governo civile guidato da un simbolo della lotta per la democrazia – l’influenza dei militari comunque non vacilla. Il Tatmadaw ha mantenuto il proprio peso politico, sociale e, soprattutto, economico. Nel momento in cui lo ha desiderato – come si è visto, del resto – si è ripreso tutto quello che aveva concesso, come se non avesse mai abbandonato il suo ruolo a capo dello stato. Ed effettivamente, vista la sua influenza e pervasività all’interno della nazione, si potrebbe affermare che non lo abbia mai fatto davvero.
[1] Ruzza, S., Gabusi, G., & Pellegrino, D. (2019). Authoritarian resilience through top-down transformation: Making sense of Myanmar’s incomplete transition. ItalianPolitical Science Review/Rivista Italiana Di Scienza Politica, 49(2), 193-209. doi:10.1017/ipo.2019.8
[2] Kyaw Zeyar Win. (2017) Rohingya: gli eterni “altri” del Myanmar e la strumentalizzazione della sicurezza nazionale. https://www.twai.it/articles/rohingya-gli-eterni-altri-del-myanmar-e-la-strumentalizzazione-della-sicurezza-nazionale/
[3] Gabusi, G. (2017). Continuità e cambiamento nel Myanmar di Aung San SuuKyi. https://www.twai.it/articles/continuita-e-cambiamento-nel-myanmar-di-aung-san-suu-kyi/
[4] Human Right Watch. Myanmar: Aung San Suu Kyi Sentenced. First Verdict in Slew of Fabricated Charges. https://www.hrw.org/news/2021/12/06/myanmar-aung-san-suu-kyi-sentenced