Ma l’amore rimase: un amore impotente, un ricordo lontano che faceva breccia nella mente invadendola di ricordi; non era più un amore carnale ma un amore totalizzante, uno svuotarsi dell’ego.
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense
Dante, in questi versi, riuscì ad esprimere la forza impetuosa d’un amore improvviso a cui è impossibile resistere, la passione è così dirompente che nemmeno Amore stesso può resistervi come ci raccontò Apuleio.
L’eros muta senza forma, si rapprende, s’allenta e si concentra ed infine si disperde o si evolve in Agape che a sua volta può diventare Kenosis; se in Dante e in Apuleio assistiamo alle massime dimostrazioni di eros, è però nelle cronache che dobbiamo cercare un amore straordinario che si è evoluto con certezza in Agape e, a mio parere, è trasceso in Kenosis.
L’amore è divenuto storia e da essa si tramutò in leggenda, ispirando non pochi autori nella stesura di storie d’amore tragiche o comunque comparendo nei contorni dei loro racconti, come avviene in Notre Dame de Paris.
Trovarono tra tutte quelle orribili carcasse due scheletri, uno dei quali abbracciava singolarmente l’altro. Uno di quegli scheletri, che era quello di una donna, era ancora coperto di qualche lembo di una veste di una stoffa che era stata bianca, ed era visibile attorno al suo collo una collana di adrézarach con un sacchettino di seta, ornato da perline verdi, che era aperto e vuoto. Quegli oggetti erano di così poco valore che di certo il boia non li aveva voluti. L’altro, che abbracciava stretto questo, era lo scheletro di un uomo.
Questa storia d’amore è antica. Correva l’anno 1079 e nella zona meridionale della Bretagna, a Palais, nacque il primogenito di una nobile famiglia che venne chiamato Pierre Abélard (Pietro Abelardo). Non seguì il tradizionale percorso d’un giovane rampollo: fece infatti l’atto di rinuncia alla primogenitura dedicandosi agli studi.
Tra i tredici e i vent’anni divenne allievo di Roscellino, dal quale imparò la dialettica e conobbe la teoria filosofica del nominalismo.
All’età di 21 anni si trasferì a Parigi. La città era in costante mutamento, il popolo stava iniziando ad arricchirsi e ad ottenere dei diritti, la gente si stava spostando dalla campagna verso la città; Parigi era viva: intellettuali, clero, nobili, ed ancora le persone ai margini della società che trovarono qualche secolo dopo in Villon il loro fabbro, si incontravano e scontravano dando vita ad un intenso progresso delle arti e della tecnica.
Abelardo, lottò, solo, in un mondo in fermento, accrescendo la sua fama e la sua conoscenza, dapprima allievo e poi finalmente maestro, si stagliò vincitore su innumerevoli vinti, quando nel 1114 ottenne la cattedra più ambita, quella di Notre-Dame.
Abelardo divenne un maestro rinomato e le sue lezioni erano all’avanguardia all’epoca: faceva intervenire gli studenti che, se meritevoli, divenivano nel corso degli anni collaboratori.
Sembrava essere giunto all’apice di un successo costruito con le sole forze del suo pensiero, ed allora Amore lo colpì con una freccia, di nascosto, privandolo, momentaneamente, del suo intelletto.
Eloisa nacque intorno al 1100 da un’unione scandalosa per l’epoca tra la signora d’un castello e il siniscalco di Francia (il più alto dignitario del regno). Fu affidata allo zio materno, studiò in convento e già in giovane età sapeva conosceva il latino, il greco e l’ebraico. Era famosa per la sua sapienza e gran parte della fama derivava dal fatto che fosse una donna.
Abitava appunto in Parigi una giovinetta di nome Eloisa, nipote di un canonico che si chiamava Fulberto, il quale, quanto più l’amava, tanto più cercava di renderla colta in ogni possibile branca del sapere. Ella, fisicamente tutt’altro che brutta, in quanto a sapienza era eccezionale, ed era tanto più lodata e famosa in tutto il regno quanto più rara è nelle donne una simile qualità, ossia la cultura letteraria.
Abelardo ne divenne il tutore e dall’insegnamento del pensiero si abbandonò presto a quello della carne.
Il maestro più famoso di Francia e la fanciulla più rinomata si nascosero, lontani da occhi indiscreti indugiando l’uno nell’altro, riscoprendo la natura intensa che piega a sé la volontà.
Che dirti? Vivendo sotto lo stesso tetto, gli animi nostri s’intesero. Con il pretesto dello studio ci abbandonavamo perdutamente all’amore, e proprio lo studio offriva quei segreti isolamenti di cui l’amore ha bisogno. Dinanzi ai libri aperti parlavamo più di amore che di filosofia, ed erano più i baci che le sentenze. Più ai seni che ai libri correvano le mani, e gli occhi riflettevano l’incanto dell’amore più spesso che non si volgessero alla lettura del testo. Per non suscitare il minimo sospetto talvolta la percuotevo, ma era per amore non per furore, era per piacere non per ira, un piacere più soave di qualunque balsamo. Che dirti infine? A poco a poco gustammo bramosamente tutti i gradi dell’amore, senza trascurarne alcuno, e se l’amore ebbe mai il potere di escogitare piaceri insoliti noi ce li concedemmo. Quanto più inesperti eravamo, tanto più ardentemente indugiavamo a goderli senza mai giungere a provarne fastidio.
L’amore segreto coltivò in Abelardo la passione della musica e della poesia, distraendolo dalla filosofia e dall’insegnamento; ma tutto ciò non poté durare. Eloisa rimase incinta e lo zio di lei scoprì la relazione.
Abelardo cercò in ogni modo di placare la sua furia: sposò Eloisa in segreto e affido il figlio alle cure della sua (di lui) famiglia. Eloisa non era favorevole al matrimonio poiché avrebbe potuto danneggiare la carriera di Abelardo e perché credeva nel culto di un amore libero, puro, disinteressato che tutto dava e nulla pretendeva. Così lei ritornò nel convento per sfuggire alle ingiurie dello zio.
Quest’ultimo, non soddisfatto della situazione e offeso nell’orgoglio, decise di distruggere l’amore umiliando Abelardo.
la feci trasferire ad Argenteuil, presso Parigi, in un’abbazia di monache, dove era stata educata e istruita da fanciulletta; le feci preparare la veste religiosa adatta alla vita monastica, eccetto il velo, e gliela feci indossare. Come vennero a saperlo, lo zio, i suoi familiari e i parenti credettero che mi fossi preso gioco di loro, e che, col farla monaca, mi fossi voluto più facilmente sbarazzare di lei. Terribilmente indignati, congiurarono contro di me, e una notte, mentre dormivo tranquillo in una camera appartata della mia casa, con l’aiuto di un mio servo che avevano comprato col denaro, si vendicarono su me in quel modo così crudele e ignominioso che riempì tutti di inaudito stupore: mi amputarono la parte del corpo con la quale avevo commesso il peccato di cui si disperavano, e subito si diedero alla fuga. […]
Mi si presentava alla mente il pensiero della gloria che mi aveva dato prestigio fino al giorno prima, e che ora, per un caso banale e vergognoso, era offuscata, anzi addirittura distrutta; pensavo come fosse giusto il decreto di Dio, che mi aveva punito proprio in quella parte del corpo con cui avevo peccato, e giusto il tradimento che mi ricambiava chi avevo per primo tradito; con quanto compiacimento i miei avversari avrebbero esaltato l’evidente equità della punizione. Pensavo anche al grande, inconsolabile dolore che genitori e amici avrebbero provato per la mia mutilazione, e come questa mia strana e infamante onta si sarebbe diffusa ovunque, oggetto di chiacchiere per tutti. Quale via ormai mi si aprirebbe dinanzi? Con quale faccia avrei potuto presentarmi in pubblico, segnato a dito da tutti, oggetto di maligne chiacchiere, deforme spettacolo per tutti? E mi turbava non poco anche il fatto che la legge, almeno secondo la lettera che uccide, considera abominevole dinanzi a Dio la situazione dell’eunuco, fino a proibire a coloro a cui sono stati amputati o schiacciati i testicoli di entrare in chiesa, come fossero esseri ripugnanti e immondi; è perfino fatto divieto assoluto di sacrificare animali evirati, secondo il capitolo 74 del libro dei Numeri: «Non dovete offrire a Dio animali che abbiano i testicoli schiacciati, o ammaccati, o tagliati, o strappati» mentre nel capitolo 21 del Deuteronomio è detto: « Non potrà entrare nella chiesa di Dio l’eunuco a cui siano stati schiacciati o amputati i testicoli, e tagliati i genitali ».
In tale situazione d’infelicità e di avvilimento, confesso che fui spinto a cercare il segreto rifugio del chiostro più dalla vergogna e dal pudore che dalla devozione religiosa; lei invece, per mio comando, prese spontaneamente il velo ed entrò nel monastero prima di me.
Così insieme rivestimmo entrambi l’abito sacro, io nell’abbazia di San Dionigi, lei nel monastero di Argenteuil.
Abelardo perse la professione di primo magister della Francia, ma non smise di insegnare: dalla dialettica passò alla scienza sacra, scelta che ancora una volta lo portò a divenire influente, ma che lo avrebbe fatto scontrare con la persona più temibile dell’epoca: San Bernardo.
Eloisa non venne mai abbandonata dall’amato, durante gli anni in cui fu maestro al monastero aiutò le monache con del denaro.
Dopo l’accusa di eresia del 1121, riuscì ad ottenere, dopo una detenzione, il permesso di ritirarsi a vita eremitica.
Lì fondò il Paracleto dove riprese ad insegnare, ma ancora una volta dovette fuggire sentendosi in pericolo; il luogo fu poi donato ad Eloisa. Lì si rincontrarono la prima volta dopo otto anni e presto divenne Ogigia ma nulla poteva durare per sempre.
L’amore, i voti, la prima accusa di eresia, le accuse di San Bernardo sul Paracleto ed ora le voci maligne sui loro incontri sembravano non dare mai pace al brillante filosofo che si vide costretto a cessare le visite.
Ma l’amore rimase: un amore impotente, un ricordo lontano che faceva breccia nella mente invadendola di ricordi; non era più un amore carnale ma un amore totalizzante, uno svuotarsi dell’ego.
Ma quelle gioie da amanti che provammo insieme mi sono state tanto dolci che non possono né dispiacermi né sfuggirmi dalla memoria. Dovunque mi volga sono sempre presenti ai miei occhi e mi accendono di desideri. Anche quando dormo la loro suggestione mi tormenta. Perfino durante i solenni riti, quando più pura deve essere la preghiera, le immagini impudiche di quelle voluttà inchiodano tanto nel profondo l’infelicissimo mio animo che mi sento disposta più a quei turpi godimenti che alla preghiera. E così, mentre dovrei gemere per quel che ho commesso, piuttosto sospiro per quel che ho perduto. E non quel solo che facevamo allora, ma anche i luoghi e i momenti in cui godemmo, e tu stesso, mi siete a tal punto dentro l’animo che agisco come se fossi con te in quel tempo, e nemmeno quando dormo riesco ad avere pace da queste immagini. Talvolta anche i miei movimenti tradiscono i pensieri dell’animo e la parola mi prorompe incontrollata. Oh me infelice! come potrei ben ripetere il lamento dell’anima dolente: «Infelice me! chi mi libererà da questo corpo di morte? ».
Almeno potessi aggiungere sinceramente le parole che seguono: « La grazia di Dio per Gesù Cristo nostro Signore». A te, o carissimo, questa grazia porse aiuto quando con una sola piaga ti liberò dai desideri del corpo, e così insieme anche da molti peccati dell’anima. Proprio per questo, invece di esserti nemico come può sembrare, Dio ti ha favorito, a guisa di un premuroso medico che non risparmia la sofferenza pur di conseguire la salute.
Ma in me l’ardore dell’età giovanile e l’esperienza di deliziosissime voluttà accendono fortemente gli stimoli della carne, incentivi alla libidine, e tanto più possono dominare da padroni in me quanto più debole è la natura che incontrano.
Fu la seconda scomunica che privò Abelardo di ogni forza e ne fu ancora una volta San Bernardo l’artefice, il quale, dopo la lotta tra l’antipapa e Innocenzo II, avendo egli appoggiato quest’ultimo e portato alla vittoria dello scisma, si ritrovò de facto con questi in debito nei suoi confronti. Così San Bernardo approfittò della sua influenza per sferrare il colpo finale al filosofo teologo che, pensando di potersi difendere, chiese d’essere ascoltato. Non gli fu concesso, ed il potere che il santo esercitò sul papa valse ad Abelardo la condanna dei capitoli incriminati, il rogo delle opere e il silenzio perpetuo e la scomunica, scomunica e condanna che verranno successivamente revocate grazie all’intervento di Pietro il Venerabile.
Abelardo rimase fino alla morte nel monastero di Pietro, insegnando e scrivendo le ultime opere.
Per suo desiderio venne sepolto nel Paracleto, dove viveva Eloisa che, alla sua morte, venne sepolta con Abelardo. La leggenda narra che il braccio di lui si alzò per accogliere e abbracciare l’amata nell’eternità della morte. Ora la tomba si trova a Parigi nel cimitero di Père-Lachaise.
Gallorum Socrates, Plato maximus Hesperiarum,
Noster Aristoteles, logicis quicunque fuerunt,
Aut par, aut melior; studiorum cognitus orbi
Princeps, ingenio varius, subtilis et acer,
Omnia vi superans rationis, et arte loquendi,
Abaelardus erat. Sed tunc magis omnia vicit,
Cum Cluniacensem monachum, moremque professus,
Ad Christi veram transivit philosophiam,
In qua longaevae bene complens ultima vitae,
Philosophis quandoque bonis se connumerandum
Spem dedit, undenas Maio renovante Kalendas.