Anita Garibaldi

Tra storia, mito e propaganda

Gisella Lombardi
Letteratura

Una donna la cui storia, nonostante tutti i tentativi di annullare il suo anticonformismo, di stereotiparla, parla più di mille parole. 

Sul Gianicolo si erge una statua insolita, un cavallo impennato cavalcato da una donna che alza una pistola mentre si stringe un bambino al petto. È Ana Maria Ribeiro da Silva, conosciuta ai più come Anita Garibaldi. Delle grandi protagoniste del Risorgimento Anita è forse la più conosciuta, la più chiacchierata: ma cosa sappiamo effettivamente di lei? La figura di Ana Maria infatti si confonde tra storia e mito. Anita, come tante donne povere dell’epoca era analfabeta, sapeva firmare col proprio nome, non di più. Sicuramente non è un caso singolo, non è l’unica donna a non aver lasciato traccia scritta di sé. Di tante si riesce a ricostruire la storia nonostante ciò. Ma non è possibile parlare di Anita, senza parlare di Garibaldi, senza parlare dell’Unità d’Italia o dell’identità nazionale brasiliana. Anita non è solo una figura storica, ma è divenuta un simbolo, una donna su cui si sono proiettate negli anni le esigenze di tanti movimenti politici.

Anita nacque probabilmente nel 1821 nella provincia di Rio Grande do Sul, figlia di una sarta e un mandriano, e dei suoi primi 18 anni sappiamo pochissimo. È la terza figlia di una famiglia povera, e si può supporre che si prendesse cura dei fratelli ed imparasse il mestiere della madre; a 14 anni, dopo la morte del padre, per necessità sposò un calzolaio. Il matrimonio sembra essere stato tutt’altro che felice e lui un marito violento. Anita e Garibaldi probabilmente si incontrarono nel porto di Laguna. A quel tempo Garibaldi era al servizio dell’esercito della Repubblica del Rio Grande che si opponeva all’impero Brasiliano. Varie son le versioni di questo primo incontro della coppia di eroi. Iconica rimane la prima frase dettale da Garibaldi: “Tu devi essere mia”. Una frase detta in italiano che però viene capita lo stesso e segna l’inizio di una passione immediata e profonda che vince le convenzioni sociali. Non si sa che fine abbia fatto precisamente il marito di lei, ma da quel momento in avanti non ha più importanza. Anita parte con Garibaldi ed ebbe ben presto il suo battesimo del fuoco, a bordo della Rio Pardo, mentre cercavano di fuggire dalle truppe imperiali. Vista la mala parata i due si salvarono su di una scialuppa dando fuoco alla nave.

Ed è all’insegna dell’avventura, della ribellione e delle ristrettezze che continuò la loro vita insieme. Garibaldi raccontava di una compagna perfetta, posta su un piano paritario, coraggiosa, forte, instancabile, sempre accanto nei fatti d’arme più celebri, combattente o infermiera all’occorrenza, capace di gestire le retrovie. E forse Anita non sarà stata così perfetta, ma indubbiamente possedeva queste capacità. Si era adattata bene alla vita a fianco del condottiero, e più e più episodi ci confermano le sue capacità, il suo coraggio e il profondo rapporto che la legava a Garibaldi. Iconico è il racconto della fuga pochi giorni dopo la nascita del suo primogenito Menotti. Partorisce mentre sono inseguiti dall’esercito imperiale: vengono attaccati nella notte, mentre Garibaldi è assente. Anita prese il bambino e fuggì a cavallo, nascondendosi nel bosco. Ci vollero svariati giorni prima che Garibaldi riuscisse a trovarla. È a questo momento che è ispirato il monumento equestre.

Brevi sono stati i momenti di quiete, come il periodo passato in Uruguay durante il quale Garibaldi insegnava matematica e Anita imparava l’italiano. Fu anche il periodo in cui si sposarono, ma le rivoluzioni chiamavano e Garibaldi ripartì in missione. Anche la secondogenita nacque in condizioni tutt’altro che ideali: durante l’assedio di Montevideo nel 1843. La famiglia si allargò, ebbero quattro figli, e le missioni sembravano non finire; Garibaldi decise quindi di mandare la famiglia a Nizza da sua madre. In attesa di tornare lui stesso a combattere in Italia. Oramai è famoso.

Anita quindi partì da sola per Nizza con i figli, lasciando dietro di sé il proprio continente. Garibaldi tornò in Italia dopo 14 anni di esilio il 21 giugno del 1848. Ad attenderlo al porto c’erano Anita, i bambini, la madre ed una folla gigantesca. Gli andarono incontro su una barchetta e la folla andò in visibilio quando si abbracciano. Il periodo che seguì fu costellato da viaggi, alle volte insieme, alle volte Anita rimane a Nizza. La salute di Garibaldi però non era delle migliori e più di una volta Anita decise di raggiungerlo e si rifiutò di allontanarsi dal suo fianco, sapendo i figli salvi a Nizza. Ma quando lo raggiunse clandestinamente in una Roma assediata dai francesi nella primavera del ’49 era Anita a stare poco bene. Incinta e malata, è improbabile che abbia potuto contribuire attivamente ai combattimenti per la Repubblica Romana. Sicuro è che si rifiutò di tornare a Nizza e che si mise in marcia dopo la caduta della Repubblica insieme a ciò che rimaneva delle camice rosse. Questa fuga, piena di stenti, fu l’inizio della fine, Anita non raggiunse mai la salvezza ma morì lungo la strada di febbre malarica, tra le braccia del marito, a soli 28 anni.

Finché Garibaldi visse esercitò un forte controllo sulla rappresentazione della moglie. Le sue memorie sono la prima e principale fonte sulla sua vita. Inoltre una regola non scritta impediva al suo entourage di parlare della sua vita privata e anzi si evitava pure di menzionarla per rispettare il lutto del loro condottiero. Di Anita, infatti, esiste un solo ritratto. Garibaldi ne tratteggia una figura idealizzata e le varie edizioni delle sue memorie imbelliscono sempre più la storia. Soprattutto quella scritta da Dumas che ne fa un’eroina romantica. A conquistare l’immaginazione del grande pubblico è per prima la vicenda della sua morte. Una precisa narrativa, influenzata in parte da Garibaldi stesso, fa di Anita una martire del Risorgimento. Diventa quindi un personaggio femminile idealizzato, una reliquia su cui piangere e che nobilita la figura del generale, il quale, frattanto, continua a combattere. Garibaldi sembra poco incline a parlarne anche con i suoi figli, e mantiene una forte riservatezza, forse anche per paura che il suo ricordo potesse venir strumentalizzato contro di lui ‒ circolavano alcune voci secondo le quali sarebbe stato proprio lui ad ucciderla. Nel 1859 Garibaldi, moderna Antigone, fa traslare i resti di Anita a Nizza, dando loro finalmente degna sepoltura.

Dopo la morte dell’eroe dei due mondi, si inizia a poter parlare anche di Anita e della sua storia, seppur con le dovute accortezze per non danneggiare la reputazione di Garibaldi. Soprattutto il primo matrimonio di Anita non va menzionato. Nel vedere come muti la figura di Anita all’interno del discorso pubblico, va considerato quanto la rivoluzione mediatica del periodo abbia influenzato il Risorgimento e sia stato un elemento importante nell’edificazione della nazione italiana. Non se ne parlava quindi solo in termini storici o d’informazione ma anche d’intrattenimento, e le vicende della coppia, anche senza essere abbellite, bastavano a renderli iconici. Così come quella di Garibaldi, anche la figura di Anita viene strumentalizzata dalla propaganda. Quindi, seppure dopo la morte di Garibaldi assuma una più definita storicità, è vero anche che la figura di Anita è soggetta ad una narrativa bipolare: da una parte viene raccontata come una donna ribelle e pugnace, dall’altra diventa una donna completamente subordinata al compagno. Si inizia anche a parlare della sua maternità, elemento finora ignorato. Su questa falsariga sembra orientarsi anche la cultura figurativa sudamericana.

Ampiamente discussa in tutta la letteratura che circondava Garibaldi, è invece a malapena menzionata dalle scrittrici del tempo. Forse perché nonostante il suo ruolo nel Risorgimento italiano rimaneva straniera, o forse perché l’immagine quasi androgina dipinta da Garibaldi cozzava con il sentimento femminile dell’epoca. Come muta il contesto storico così muta anche la figura di Anita. Sempre meno seguito ha la sua figura di martire, e sempre più interessa in un’ottica di pedagogia politica, come modello per “fare le italiane”. Con la volontà di allineare il fascismo e i garibaldini, di rivendicare il Risorgimento come mito di fondazione del regime, Anita cambia ancora volto: diventa l’eroina dell’amore. Per depotenziarne il carattere spavaldo e indipendente, ne viene sottolineata la dimensione di moglie innamorata e madre devota sino al sacrificio. Nel medesimo periodo anche in Brasile un altro dittatore tenta di costruire il proprio consenso politico basandosi sulla storia del suo paese. Dopo essersi contesi la salma, la spunta Mussolini. Anita viene ancora traslata, questa volta a Roma, ai piedi della statua a lei dedicata, diventando una reliquia.

Ma se guardassimo con gli occhi di oggi alla statua di questa donna con una pistola e un bambino, non credo vedremmo una donna devota fino al sacrifico, quanto una donna indipendente, indomita, coraggiosa. Non abbiamo una conoscenza diretta del suo reale carattere, ma conosciamo la sua storia e le scelte da lei compiute, ad esempio tra il rimanere al sicuro con i propri figli o correre al fianco del marito in battaglia. Per questo vedremmo in lei una donna padrona delle proprie scelte, con un posto preminente nella mitologia patriottica; una donna la cui storia, nonostante tutti i tentativi di annullare il suo anticonformismo, di stereotiparla, parla più di mille parole.

[1] Cavicchioli, Silvia: “Anita, storia e mito di Anita Garibaldi”, Einaudi Storia (2017)

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