"Animot"

Gli animali, l'alterità

Valeria Sokolova
Filosofia

Ma cosa si intende con l’espressione “non è l’umano”? Significa che non possiede il logos, ossia la parola, la storia e la cultura nella loro accezione umana. Non è l’umano poiché è diverso: è l’altro.

 

    Uccelli, mucche, vermi, coccodrilli, conigli e così via, in altre parole animali grandi e piccoli, selvaggi e addomesticati, predatori e prede, sono stati tutti inclusi nel sostantivo generico e onnicomprensivo “l’animale”. Ma che cos’è l’animale? Esso non è l’umano, e probabilmente non dovrebbe mai essere considerato tale né i due venir paragonati tra loro. Ma cosa si intende con l’espressione “non è l’umano”? Significa che non possiede il logos, ossia la parola, la storia e la cultura nella loro accezione umana. Non è l’umano poiché è diverso: è l’altro.

   Nel corso della storia, l’essere altro degli animali è stato largamente considerato un difetto; la postulata mancanza del logos ha innescato e giustificato, sia moralmente sia giuridicamente, numerose e crudeli vessazioni nei loro confronti, come per esempio allevarli in quantità iperboliche, sottoporli ad esperimenti in laboratorio ‒ persino modifiche genetiche ‒ e, infine, macellarli per la produzione di carne, cuoio e pellicce. Ci sono ancora molte crudeltà che possono essere aggiunte a questa lista; tuttavia, bastano queste per accorgersi che in nessun caso si è agito avendo per fine gli animali, ma, piuttosto, essi sono strumentali ai fini dei loro “padroni”, gli umani possessori di logos.

     È un’indubbia verità che tra animali e umani ci sia un abisso e che sia senza fondo. Nel pensiero filosofico occidentale, il soggetto dell’animalità è stato relegato ai margini della discussione fino a quando il filosofo inglese Jeremy Bentham si è chiesto ‘Provano sofferenza?’. Approfondendo ulteriormente la questione, il filosofo francese Jacque Deridda segue una direzione opposta alla generalizzazione e all’omogeneizzazione, alla ricerca di somiglianze tra l’animale e l’umano. Al contrario, lui vuole approfondire ancora di più l’abisso e scovare più differenze possibili. Per spezzare il circolo vizioso in cui è stato rinchiuso, Deridda propone di cominciare proprio dall’espressione “l’animale”. Innanzitutto, lui evita volontariamente di usare il singolare “l’animale” come forma collettiva, dal momento che il suo intento è quello di moltiplicare le alterità tra le specie animali. In francese, la lingua madre del filosofo e dunque anche dei suoi testi, la forma plurale della parola “animali” si scrive “animaux”. Deridda sostituisce le tre lettere finali a-u-x con il suffisso «mot» che, letteralmente, significa “parola”, creando così la nuova, chimerica,animot[1]. Dunque, quando essa viene pronunciata, assimila il suono della desinenza «-aux», evocando la grande varietà delle specie animale; quando, invece, viene scritta, evidenzia ciò che Deridda cerca di restituire, anche se solo “sulla carta”, agli animali, ossia ciò che è stato tolto loro: il linguaggio nominale della parola, la voce che nomina e che nomina la cosa come tale, tale come appare nel suo essere

     L’animale che dunque sono prende in esame diversi autori che hanno contribuito al logocentrismo della tradizione occidentale che Deridda si sforza di mettere in luce e decostruire. All’interno del libro, Deridda mantiene un certo ordine e delle relazioni specifiche tra i vari pensatori, enfatizzando la continuità del pensiero: da Aristotele a Heidegger, da Cartesio a Kant, Lévinas e Lacan, per poi immergersi immediatamente nella parte conclusiva del libro che affronta il concetto heideggeriano di “come tale”.

     Deridda riconosce il tentativo di Heidegger di decostruire la tradizione metafisica cartesiana della soggettività verso l’umano Dasein, pur evidenziando il suo fallimento nel fare la medesima cosa nei confronti degli animali. Heidegger, influenzato da Aristotele – e non per caso sono menzionati in coppia da Deridda – ammette che l’animale è un essere vivente (rispetto agli oggetti puramente fisici), anche se visto nella luce del concetto aristotelico di ζῷον ἄλογον (un essere senza parola), ossia una creatura priva della parola e, quindi, esclusa dalla possibilità di avere una conversazione. In questo senso, l’animale manca totalmente dell’abilità attribuita unicamente agli esseri umani di comprendere gli altri essere come tali, dunque di avere comprensione di qualcosa come quel-qualcosa-che-è: un albero come albero, le scale come scale. Questo sistema del “come tale” sottolinea l’importanza del potenziale umano sulla base del consenso all’attribuire significato ad ogni cosa di cui esso si serve. [2]

     In riferimento a questo, Deridda suggerisce di mettere da parte la contrapposizione tra “l’animale ha e non ha il ‘come tale’”. Anche in questo caso, il chimerico animot dovrebbe aiutare a intersecare la problematica della struttura del “come tale” perché, se per Deridda non esiste “l’animale” ma piuttosto “gli animali”, allora, non dovrebbe essere nemmeno IL “come tale” ma, al contrario, una molteplicità di “come tali”. Il successivo punto fondamentale è la sua elaborazione del concetto heideggeriano dell’autotrasposizione, che indica l’abilità umana di vivere o stare con animali in casa, in altre parole con gli animali domestici. [3] Malgrado lo stare con noi permetta agli animali domestici di diventare parte della vita umana, secondo Heidegger, essi non possono concordare con gli esseri da cui sono circondati; possono solo adottare dei comportamenti nei loro confronti. Si pensi, per esempio, a un bambino e a un cane che vivono sotto lo stesso tetto e che devono salire le scale. Affrontano entrambi le scale come-se-fossero-scale? In altre parole, riescono entrambi a concepire le scale in quanto tali, ossia scisse dal loro fine di salirle? Secondo Heidegger no. Deridda, invece, risponde che non è importante se un animale abbia una comprensione delle scale uguale a quella di un essere umano o meno. Ciò che è importante è che nemmeno tra gli esseri umani sussiste  una norma sul come apprendere il relazionarsi alle cose con cui interagiscono quotidianamente. Heidegger direbbe che gli animali non “mangiano” con noi né noi ci “nutriamo” con loro, mentre Deridda obietterebbe che “[…] l’animale non mangia come noi ma ugualmente non ci sono due persone che mangiano allo stesso modo; ci sono differenze strutturali, anche quando si mangia dallo stesso piatto”.  pertanto, Deridda evidenzia che dovremmo prestare attenzione a tutte le possibili differenze strutturali tra esseri umani stessi e tra loro e gli animali. E comunque nemmeno questo sarebbe sufficiente, dal momento che Deridda mette in dubbio la sola purezza della possibilità umana di comprendere altri esseri come tali. Per essere in grado di rapportarsi a una cosa in quanto tale, è necessario comportarsi come se si fosse assenti nell’esatto momento in cui la si comprende.

     Per centinaia di anni, è stata formulata e postulata la supremazia del logos in relazione all’alterità degli esseri non umani. Ma in che modo è stata e continua ad essere percepita la loro alterità? L’alterità è ciò la cui essenza  è per noi enigmatica tanto quanto il fenomeno della morte? È ciò che, quando lo guardiamo in faccia, ci fa sentire responsabili di fronte e per lui? O è ciò che continua ad essere schiavo della nostra padronanza?

    Ecco tutto ciò che viene elencato nel paragrafo introduttivo; ecco la tragedia della nostra relazione logocentrica con gli animali e, dunque, con la vita, con l’anima stessa. Le sue radici sono molto più profonde dell’ontologia di Heidegger. Ma, come ho già detto qualche passaggio più indietro, non c’è abbastanza tempo per esplorarle tutte.

[1]  Cfr. Jacques Derrida, L’animale che dunque sono, Jaka Book, 2014.

[2] Martin Heidegger, I concetti fondamentali della metafisica, Il nuovo Melangolo, 2005, §71.

[3] Importante da notare: gli animali non sono esserci, inteso allo stesso modo proprio degli umani, secondo il pensiero heideggeriano. 

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