Amor vincit omnia

I versi salvati di Osip Mandel'štam

Luca Vidotto
Letteratura

Il gelo ricopriva la terra grassa e nera, dove lo sputo si ghiaccia quand’è ancora in volo, dove il terreno non si decide a fendersi, nemmeno sotto lo sforzo disumano dei picconi incastonati nelle mani di quegli scheletri le cui ossa sono tenute assieme soltanto da un velo fragile di pelle. 
In quella terra dimenticata – immagina Šalamov – accatastato fra altri corpi inerti, il poeta stava morendo. 

Già da tempo la sua voce non era altro che un flebile alito, e le sue mani gonfiate dalla fame, con le bianche dita esangui e le unghie sporche, lunghe e ricurve, riposavano sul suo petto senza proteggersi dal freddo. […] Un pallido sole elettrico, lordato dalle mosche […] era fissato al soffitto, in alto. La luce ricadeva ai piedi del poeta: stava sdraiato come in un cassetto, nella scura profondità dei tavolacci comuni a due piani, nella fila inferiore. [1]

Quando la voce di Mandel’štam si spense e, come fumo leggero, volò via, l’amore di Nadežda lo salvò, strappando all’oblio il suo fiore più caro.

Mandel’štam aveva smesso di comporre le sue melodie. La sua testa era diventata una scatola vuota, incapace ormai di far risuonare il canto che vibrava dalle corde della sua anima. Quella delicata lira era ammutolita, schiacciata dalla pesantezza del suo esile corpo. «Il poeta stava morendo da così tanto tempo che ormai non capiva più che moriva»[2]. Stava per essere sradicato dal terreno della vita, della vita offesa e violata dei gulag e della prigionia, dell’esilio, del continuo transitar da nessun-luogo verso nessun-luogo. I palpiti del cuore battevano sempre più stancamente il loro ritmo. Ogni sospiro pareva essere l’ultimo. 

E se ne restò disteso così, leggero e insensibile, fino alla mattina dopo. La luce elettrica divenne appena un po’ più giallastra e […] quando gli misero in mano la sua razione giornaliera, la serrò con le dita esangui e premette il pane contro la bocca. Morse il pane coi denti devastati dallo scorbuto, le gengive sanguinanti […]. Si premeva il pane contro la bocca con tutte le forze […]

I vicini cercarono di fermarlo:
«Non mangiarlo tutto, è meglio se lo tieni per dopo, dopo…». […]
«Dopo quando?» articolò in modo chiaro e distinto. E chiuse gli occhi. Verso sera morì. [3]

E fu il silenzio. 
Il suo corpo, disteso sul tavolaccio, era sempre al di qua dal putrefarsi, non marciva, conservandosi intatto nell’inospitale baracca, come in un evento epifanico, che per alcuni è il segno della santità, del raggiungimento della luce quieta dell’eternità. Ma il suo corpo restò incorrotto e inodore per il freddo, nulla di straordinario, nient’altro che un destino condiviso con altri milioni di esseri, resi disumani dall’atrocità di un’esistenza lacerata e violata – e presto dimenticata.
Con la morte di un poeta il mondo perde un po’ della sua sensualità, disimpara a conoscersi, abbandonandosi raggelato a una nuova cecità. Con la morte di Mandel’štam scompariva tutto il suo universo di suoni e ricordi, così com’era già scomparso quello di carta e inchiostro, che una notte del ’34 la polizia politica sovietica aveva raccolto dalla sua casa moscovita, e poi bruciato. Aveva scagliato dardi velenosi con la sua lira. Imperdonabile. Fu arrestato, e mandato al confino, in un esilio che lo spinse, in un crescendo assordante di voci inesistenti brulicanti nella testa e di balenanti allucinazioni, e un ancor più folle trasognante lucidità, a tentare più di una volta il suicidio. 

Nella stanza del poeta in disgrazia

vegliano a turno la paura e la Musa. 
Ed una notte avanza

che non conosce aurora. [4]

Ad accompagnarlo, prima del suo definitivo viaggio verso il cuore del nulla, non aveva altro che una copia della Divina Commedia e l’amata moglie, Nadežda. Ma, per loro, arrivò presto il giorno in cui dovettero imparare «la scienza degli addii, nel piangere notturno, a testa nuda»[5]. Mandel’štam avrebbe dovuto scontare cinque anni in un campo di lavoro, ma quando arrivò a Vtiraja Recka nel ‘38, un gulag di transito presso Vladivostok, lì morì. Nessun foglio raccoglieva i suoi componimenti. Già da tempo non si trovava più una sua pagina scritta: la poesia, durante il regime staliniano, dovette diventare sempre più leggera, un canto del vento che passava senza lasciar traccia alcuna, vorticando nell’animo, fino a scavarlo con delicatezza. La poesia si incideva su uno spartito puramente mnemonico e le parole erano invisibili agli occhi. 
Ma – quando la sua voce si spense e, come fumo leggero, volò via – l’amore di Nadežda lo salvò. Un amore tanto vibrante da mantener vivo il suono delle sue poesie nelle corde fragili della memoria. Un amore che è riuscito a strappare all’oblio il suo fiore più caro. «Noi ci amiamo come papavero e memoria»[6], sembra sentirle dire, nel silenzio della sua stanza vuota. E se oggi possiamo leggere le poesie del più grande poeta del Novecento russo, è perché è esistita, in quella terra maledetta, una tale venerazione. Tutti i manoscritti che la polizia aveva sequestrato, derubato, macerato e dato alle fiamme, dopo aver messo a soqquadro la loro casa durante la perquisizione, e tutte le parole che furono scandite, clandestinamente, dal dolce movimento delle labbra, con lei, Anna Achmatova e altri pochi amici, Nadežda li mantenne vivi nel ricordo, salvandoli dal naufragio nelle acque del fiume Lete. Difese, inoltre, dalla morsa delle luride mani dei censori, quelle poche poesie che era riuscita a riportare alla luce dal fondo della dimenticanza, ridando loro la parola assieme al marito, nei pochi anni di prigionia in cui poté stargli accanto. 
Il resto dei suoi giorni li dedicò alla cura di quei frammenti dolenti che si era portata in grembo, al rammemorare quelle parole che le si erano scolpite nel cuore, trascrivendo sulla carta le pietre preziose che compongono i versi di Mandel’štam, per poi nasconderli «in pentole, stivali, cuscini, negli angoli più segreti delle case di amici fidati». Solo così possiamo anche noi, oggi, sentirle risuonare nell’eternità che non conosce consumo.

 Voi, togliendomi i mari, la rincorsa, lo slancio,

e dando al piede il sostegno di una terra forzata,
cos’avete scoperto? Un principio sagace:
che il moto delle labbra non può venir sottratto. [7]

Le sue poesie giungono tra le nostre mani come fossero un dono della grazia, raccolte nel tepore di un’anima nella cui voce, tremanti, hanno vibrato le parole ti amo. La voce della moglie, nel cui nome brilla, fatalmente, la luce che si pone a sigillo di questa storia d’amore. E un sorriso riempie il nostro viso quando scopriamo che Nadežda significa “speranza”.

[1] Cherry-brandy in V. Šalamov, I racconti della Kolyma, trad. it. di M. Binni, Adelphi Milano, 1999, pp. 69-70.

[2] Ibidem.

[3] Ivi, pp. 75-76.

[4] Voronež in A. Achmatova, La Corsa del Tempo. Liriche e Poemi, trad. it. di M. Colucci, Einaudi Torino, 1992.

[5] Versi iniziali della poesia Tristia nella traduzione di S. Vitale.

[6] Corona in P. Celan, Poesie, trad. it. di G. Bevilacqua, Mondadori Milano, 2015, p. 59.

[7] O. Mandel’štam, Ottanta poesie, trad. it. di R. Faccani, Einaudi Torino, 2009, p. 143.