Afghanistan:
l’arte di trarre profitto dalle armi

Marta Bernardi
Attualità

Essa può essere considerata come insinuazione inattesa per un semplice motivo: perché infatti lamentare una sconfitta quando coloro che dall’Afghanistan hanno tratto maggior guadagno sono proprio gli americani? 

15 agosto 2021. Ferragosto. Una data che ha visto moltissimi italiani, come ogni anno, imbandire tavole e preparare grigliate per familiari e amici, pronti a festeggiare il culmine dell’estate. Un’occasione allegra e spensierata, fatta di buon cibo e buona compagnia.

Tuttavia, più ad est del Belpaese, la stessa data non evoca ricordi altrettanto sereni. Lo scorso 15 agosto, infatti, segna il giorno in cui le forze talebane sono riuscite a conquistare Kabul. L’offensiva militare talebana, iniziata nel mese di maggio, si è conclusa con la presa – non violenta – della capitale afghana. Da lì è iniziato un pandemonio, tanto effettivo quanto mediatico. Effettivo perché l’instaurarsi al potere delle forze talebane ha spinto alla fuga migliaia di afghani. Essi, temendo per la propria incolumità in quanto ‘collaboratori delle potenze straniere’ o, semplicemente, memori delle conseguenze della buia parentesi di potere talebano tra gli anni ’90 ed i primi anni 2000, si sono riversati nell’aeroporto internazionale di Kabul, nella speranza di salire a bordo di un qualsiasi aereo. L’aeroporto, infatti, rappresentava l’unica possibile via d’uscita dall’Afghanistan, considerato che i passaggi di confine erano ormai già caduti da tempo sotto controllo talebano. Le immagini di quei drammatici momenti hanno contribuito a generare la bufera mediatica che ha seguito la definitiva evacuazione delle truppe occidentali, dei loro collaboratori civili e degli stranieri in generale, iniziata circa un anno prima con l’annuncio del ritiro delle truppe americane voluto da Trump e poi confermato ed effettuato dall’amministrazione Biden. In poche ore, così, le immagini di centinaia di persone che si riversavano sulla pista e si aggrappavano disperatamente agli aeroplani in volo hanno creato grande sgomento e forti reazioni nell’opinione pubblica mondiale.

Numerose critiche sono state infatti rivolte all’operato americano, biasimato per aver abbandonato il paese in balìa delle forze talebane. Altri hanno apertamente accusato gli Stati Uniti di aver ‘perso’ e di star fuggendo con la coda fra le gambe. Quest’accusa, inaspettatamente, spesso accompagnata dal famoso proverbio afghano “voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo”, arriva principalmente da fonti americane. Essa può essere considerata come insinuazione inattesa per un semplice motivo: perché infatti lamentare una sconfitta quando coloro che dall’Afghanistan hanno tratto maggior guadagno sono proprio gli americani?

Infatti, per quanto spinosa, la realtà è che nonostante le vittime riportate (circa 2500) e gli scandalosi costi di mantenimento delle truppe a stelle e strisce su suolo afghano (un totale di 2,26 triliardi di dollari), i profitti della “guerra al terrorismo” sono finiti comunque in tasche statunitensi. In particolare, in quelle dei soliti sospetti: l’industria militare e quella petrolifera. Del resto, la seconda è il carburante che permette alla prima di funzionare. Si parla chiaramente di colossi con miliardi di fatturato annui, come Lockheed Martin, Boeing ed Exxon Mobil. Inoltre, non si considerano unicamente i guadagni derivanti dal costosissimo mantenimento dei reggimenti americani o dell’impiego, altrettanto dispendioso, di truppe private su suolo straniero – i famosi security contractors, che tanto in Afghanistan quanto in Iraq superavano le forze americane in loco per tre a uno. È necessario considerare anche i profitti tratti dalla “ricostruzione” delle forze armate afghane sul modello occidentale, ovvero statunitense. 

Il divario tra il modello di sicurezza impiegato dal governo afghano pre-2001 e quello post è talmente ampio da risultare quasi ridicolo. Grazie alle pressioni delle lobby di cui fanno parte le aziende sopracitate, l’esercito afghano è passato da una struttura molto semplice e basilare ad una complessa macchina in cui solo un terzo del personale militare è combattente, mentre i restanti due terzi svolgono altrettanto essenziali compiti di logistica e supporto; questi ultimi, inoltre, richiedono tutta una serie di mezzi e strumenti (radar, radio sicure, banalissimi giubbotti antiproiettile), tarati per l’esercito e indubbiamente costosi.  

Se questo non fosse già sufficiente, vi è anche la questione della sostituzione di armi e veicoli di produzione – o quantomeno progettazione – sovietica con quelli di fabbricazione americana. Utilizzando un paragone automobilistico, la differenza tra i due è quella che si potrebbe trovare tra una vecchia Fiat 500 e una moderna Tesla. I vecchi kalashnikov di produzione cinese o pakistana preferiti dall’esercito afghano pre-intervento USA potevano essere riparati con una piccola fornace ed un martello; se smontati ed interrati, emergevano ancora funzionanti dopo anni. Difficile dire lo stesso dei fucili automatici americani oggi in dotazione alle forze afghane. Un discorso simile può essere fatto per l’aviazione, dove gli elicotteri sono passati dall’essere degli ammassi di metallo smontabili con pinza e tenaglia, ai famigerati blackhawk, mezzi complessi e altamente tecnologici, che per essere riparati o anche solo pilotati richiedono una formazione specifica, ovviamente di monopolio statunitense. Molto casualmente, prima di andarsene dal suolo afghano, 37 elicotteri di matrice americana sono stati venduti all’esercito afghano per la modica cifra di 450 milioni di dollari. Spese di questo genere devono essere moltiplicate per i vent’anni di intervento militare in Afghanistan: il totale non è nemmeno immaginabile.

Tutto ciò considerato viene da chiedersi se la teoria di John Boyd, ex-pilota americano, non sia corretta. Se davvero, cioè, il Pentagono non abbia in mente una sola e ben precisa strategia rispetto all’Afghanistan e all’Iraq: non interrompere il flusso di denaro e, se possibile, renderlo ancora più florido. Indubbiamente, gli interessi di numerosi attori differenti hanno giocato la propria partita nella cosiddetta guerra al terrorismo. Come spesso accade, non vi è un unico filo conduttore, ma molti, inestricabilmente ingarbugliati tra di loro e difficili da considerare in modo separato.

[1] Samuel Stebbins and Evan Comen, Military spending: 20 companies profiting the most from war https://eu.usatoday.com/story/money/2019/02/21/military-spending-defense-contractors-profiting-from-war-weapons-sales/39092315/. USA TODAY

[2] Ask not what the war cost the US, but who profited from the war. https://www.trtworld.com/magazine/ask-not-what-the-war-cost-the-us-but-who-profited-from-the-war-49318. TRT WORLD

[3] Nico Piro, La favoletta dei soldati codardi. https://nicopiro.it/2021/08/16/la-favoletta-dei-soldati-codardi/.

[4] Ellen Knickmeyer. Costs of the Afghanistan war, in lives and dollars. https://apnews.com/article/middle-east-business-afghanistan-43d8f53b35e80ec18c130cd683e1a38f

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