Prossimo appello

Francesco Martin
Attualità

Non è la laurea che forgia la persona, così come non è obbligatorio che tutti debbano frequentare l’università per realizzarsi come persone e trovare il loro posto all’interno della società.

Nel corso della vita, breve o lunga che sia, ciascuno di noi si trova davanti delle difficoltà vuoi in ambito lavorativo, familiare o personale.

Tuttavia, il normale spirito di adattamento e di autoconservazione, unito a una visione positiva del futuro e magari al sostegno di persone care, fanno sì che tali momenti non diventino dei macigni soffocanti, ma possano essere superati.

Le vicende di cronaca di questi ultimi mesi mi hanno particolarmente colpito perché, forse anche complice un particolare interesse degli organi di stampa, sembrano segnare un aumento di tali casi; mi riferisco al drammatico numero di suicidi tra gli studenti universitari.

Secondi i dati ISTAT[1] il numero dei suicidi per l’anno 2019 della fascia d’età che va dai 15 ai 34 anni, in cui sono ricompresi anche coloro che tradizionalmente frequentano l’università, si assesta intorno ai 514.

Seppur tale dato ricomprenda anche soggetti che non frequentano l’ambiente accademico, il numero è comunque allarmante, ancora di più se confrontato con i vari articoli di cronaca.                     

Si evince, infatti, che la circostanza che accomuna chi commette tale gesto estremo è il non aver confidato, nemmeno ai genitori, agli amici o al proprio affetto, la difficoltà e il disagio in cui versavano. Anzi, tutt’altro. Sembra che ci sia una latente, ma quantomai radicata, forma di vergogna nell’ammettere di essere stati bocciati a un esame o di non riuscire a finire un singolo corso di laurea, unita a una valutazione della propria persona e del proprio essere sull’unica base del rendimento accademico.

Ed ecco, forse, il punto.

Se si accetta il sillogismo per cui l’aver superato con un voto alto il singolo esame o l’aver concluso il corso di laurea in tempo rende il singolo studente meritevole, socialmente accettato e conforme allo standard richiesto, allora il contrario, cioè il fallimento, rende il soggetto un reietto che, oltre ad aver fallito nella prestazione universitaria, ha fallito anche nella vita.

Conseguentemente sopraggiunge l’annichilimento, la disperazione di non essere più all’altezza della vita, di aver deluso le persone care e la società e, in definitiva, la consapevolezza e certezza di essere sbagliati per questo mondo e di non meritare di vivere. Sia ben chiaro, non si vuol dire che il merito non debba essere premiato, anzi, semmai il contrario; se è giusto che la persona meritevole e che ha compiuto sacrifici sia ricompensato, è, però, altrettanto giusto che chi “fallisce” non si senta ghettizzato o inadeguato.

Per fronteggiare questo fenomeno alcune Università hanno istituito degli appositi sportelli di Counseling psicologico volto ad aiutare gli studenti ad affrontare, ed eventualmente superare, il disagio provato.

Se questa iniziativa è più che apprezzata e sicuramente molto utile, occorrerebbe anche un’inversione di rotta per quanto attiene ai modelli educativi ed alle prospettive future.

Chi ha superato l’esame di maturità è libero di scegliere la facoltà che ritiene più congeniale e quindi può decidere di studiare una materia che riscuote il suo interesse, al contrario dei precedenti gradi di istruzione dove il programma è standard e scelto dal Ministero dell’Istruzione. A ben vedere l’università dovrebbe, quindi, rappresentare, seppur con le normali difficoltà che caratterizzano una prova d’esame, un momento in cui il singolo può accrescere la propria cultura e analizzare tematiche e materia che interessano realmente.

Ed allora perché così tanti suicidi?

Oltre a quanto evidenziato in precedenza e fermo restando altri fattori personali del singolo, quello che di fatto accade molte volte è che la scelta dell’università diventa una conseguenza logica e obbligata non tanto per trovare uno sbocco professionale, ma per realizzarsi come persona secondo la retorica del: «senza la laurea non sei nessuno».

Si deve quindi, a mio avviso, invertire questa tendenza.

Non è la laurea che forgia la persona, così come non è obbligatorio che tutti debbano frequentare l’università per realizzarsi come persone e trovare il loro posto all’interno della società.

Ecco, quindi, che per evitare che il dato riportato in precedenza sia destinato ad aumentare occorre premiare il merito senza esaltarlo, educare le generazioni che si apprestano a terminare il percorso di studi superiori che il mondo accademico rappresenta una scelta e non una costrizione e che la propria identità come individuo e persona non è dato dal risultato positivo o meno conseguito a un esame, ma da altri elementi ben più importanti. Il fallimento, o meglio, il non raggiungere tutti i nostri obiettivi, per natura umana, è parte integrante della vita di ciascuno di noi, ma non attraversare un determinato traguardo che ci siamo prefissati non implica necessariamente aver fallito come persona.

Infine, occorre anche educare i giovani proprio a tale concetto e non solo a quello di essere i migliori ovunque e sempre; prima o poi in qualcosa falliranno e se non saranno preparati a conoscere questo aspetto della vita, le conseguenze potrebbero essere anche gravi.

Intanto, ci vediamo al prossimo appello.

[1] I dati sono disponibili al seguente link 

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