Medea e Agamennone

Francesco Martin
Attualità

Siamo sicuri che non esistano anche casi in cui le parti sono invertite?

Lo so e lo premetto, questo articolo potrebbe a prima vista dare fastidio, far storcere il naso, o persino innescare una vivace polemica.

Ma a volte dobbiamo anche affrontare la realtà che ci circonda e sforzarci di abbandonare il nostro comodo e trincerato punto di vista per espandere i nostri orizzonti.

Il 25 novembre, come noto, è la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, tramite la risoluzione numero 54/134 del 17 dicembre 1999.

Orbene in Italia, in tale occasione, ci si interroga se l’attuale panorama normativo sia in grado di contrastare adeguatamente la violenza contro le donne e a fornire loro protezione.

Di recente, nella mia attività professionale, mi sono imbattuto in una pronuncia della Corte di cassazione che riguardava il reato di maltrattamenti in famiglia e che vedeva come persona offesa una donna.

Tuttavia, dopo aver letto la sentenza mi è apparso un pensiero: le “vittime” sono sempre le donne?

Se analizziamo il reato di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p. si evince che si tratta di un delitto a forma libera, perpetrabile esclusivamente all’interno di precisi rapporti familiari e genericamente riferibile a qualunque comportamento caratterizzato dalla commissione, nel tempo, di atti di sopraffazione tali da offendere la personalità del soggetto passivo e causare la degenerazione del rapporto in cui sono posti in essere. 

La condotta tipica, che può manifestarsi sia in forma attiva che mediante omissioni ‒ come nel caso in cui il soggetto agente ometta di tenere un determinato e doveroso comportamento ‒, deve essere caratterizzata dal requisito dell’abitualità, cioè della continuità e ripetitività di atti vessatori, dal momento che il legislatore ha voluto sanzionare la lesione dell’integrità psico-fisica, del patrimonio morale, della libertà e del decoro del soggetto passivo. 

La dottrina [1] e anche la giurisprudenza di legittimità [2] hanno più volte affermato che i maltrattamenti in famiglia riguardano un’ipotesi di reato necessariamente abituale, che si caratterizza per la messa in atto di una serie di condotte, per lo più attivamente compiute, le quali isolatamente considerate potrebbero anche essere non punibili (come gli atti di infedeltà), ma acquistano rilevanza se sono ripetute più volte nel tempo. 

L’art. 572 c.p. prevede poi una serie di circostanze aggravanti della pena quali l’aver commesso il fatto alla presenza o in danno di un figlio minore, di una donna in stato di gravidanza o di un soggetto affetto da disabilità.

Evidenziate in sintesi le caratteristiche del reato in questione ci si accorge subito di un fatto fondamentale: tale reato può essere commesso da chiunque, indipendentemente dal genere.

Astrattamente, quindi, anche un uomo potrebbe subire tale forma di maltrattamenti e voler vedere tutelati i propri diritti avanti ad un Tribunale.

Certo, vi anticipo, la statistica dei casi trattati mostra una netta maggioranza di vittime femminili, ed il modo in cui si esprime la violenza messa in atto da un uomo è principalmente di tipo fisico – quindi più palese.

Ma siamo sicuri che non esistano anche casi in cui le parti sono invertite?

Se vogliamo partire dal mero dato di cronaca la prima aggressione con l’acido (c.d. vitriolage) in Italia è stata commessa nel settembre 2012 e ha avuto come vittima un uomo e come autore del reato una donna[3].

Un altro caso, accaduto nel 2019 con le stesse modalità, mi ha colpito in particolare: dall’intervista, infatti, emerge che l’uomo aveva denunciato più volte la donna per i suoi comportamenti ossessivi, ma il suo grido di allarme non era stato preso sul serio [4]. 

Ed ancora nel 2012 l’Università di Siena [5] si è occupata della questione predisponendo una proiezione statistica allarmante: 5 milioni di uomini vittime di violenza. 

Secondo tale indagine la violenza femminile si configurerebbe in minaccia di esercitare violenza (63,1%); graffi, morsi, capelli strappati (60,05); lancio di oggetti (51,02); percosse con calci e pugni (58,1%). 

Molto inferiori (8,4%), a differenza della violenza esercitata sulle donne, gli atti che possono mettere a rischio l’incolumità personale e portare al decesso.

Numeri analoghi sono stati rilevati dalla GESEF, un’associazione per genitori separati con sportelli di ascolto in Italia, che si è basata su di un campione molto simile a quello usato dall’ISTAT per l’indagine che vede vittime le donne.

Non bisogna inoltre dimenticare i casi in cui la denuncia per presunti maltrattamenti diviene strumentale per ottenere la custodia dei figli o altre facilitazioni durante l’iter giudiziario per la separazione o il divorzio.

Ampliando inoltre lo sguardo in chiave europea, in Germania nel 2020 sono state quasi duemila le richieste di aiuto da parte di uomini gestite dagli operatori del servizio predisposto, che finora ha coperto solo due regioni del Paese, la Baviera e il Nord Reno-Westfalia[6] . 

Se dunque la violenza maschile è caratterizzata dall’impiego della forza e della violenza fisica, quella femminile è più sottile, quasi psicologica, ma altrettanto pericolosa e con effetti deleteri.

Orbene, vi chiederete voi, cosa vuoi dire dopo questa spiegazione di diritto e queste statistiche?

Una cosa molto semplice: invitarvi a riflettere e ad esaminare il problema della violenza domestica in tutte le sue forme e senza preconcetti.

Perché in caso di maltrattamenti non esiste il sesso forte, perché tutte le persone meritano la stessa modalità di ascolto e tutela da parte della legge senza facili stereotipi e, infine, perché il lupo non è sempre il cattivo della favola.

I personaggi di Medea e Agamennone lo insegnano con storica chiarezza.

[1]  F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2003, p. 270 ss.; S. Canestrari, L. Cornacchia, G. De Simone, Manuale di diritto penale. Parte generale, Bologna, 2017, p. 292; G. Cocco, Manuale di diritto penale. Parte generale, Padova, 2012, p. 53; G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2019, p. 215 ss.; F. Mantovani, Diritto penale. Parte Generale, Padova, 2020, p. 497 ss.; G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2020, p. 284 ss.

[2]  Cass. pen., sez. VI, 19.10.17, n. 56961; Cass. pen., sez. III, 22.11.17, n. 6724; Cass. pen., sez. III, 20.03.18, n. 46043; Cass. pen., sez. VI, 09.10.18, n. 6126; Cass. Pen., Sez. VI, 10.03.2022, n. 8333.

[3] Link 

[4] Link

[5] Link

[6] Link

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